AMARCORD/68 Ballerini, con il pavé un feeling magico: così nel 1998 “azzerò” la Roubaix

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Amava tanto la Roubaix da prenderla sotto la sua ala e cancellarla agli occhi di tutti. L’edizione del 1998 esiste nell’albo d’oro, ma per certi versi non si corse. Andò in scena piuttosto il lungo e incontrastato monologo di Franco Ballerini.

Aveva già 33 anni, ma per la Roubaix non sono mai stati tanti. La si vince meglio da atleti stagionati, forti nella testa ancora prima che nel fisico. E Ballerini di quella corsa sapeva già tutto: come si vince, perché l’aveva già fatto tre anni prima; come si perde, perché l’aveva lambita spesso; e come si regala, perché la beffa di Duclos-Lassalle, giudicato ormai alla frutta e portato benignamente a ruota fino al velodromo, gli bruciava ancora sulla pelle, a cinque anni di distanza.

Ballerini era nato per quella corsa, pedalava sul pavé con una disinvoltura inspiegabile, quasi magica. In quegli anni il suo problema, paradossalmente, era quello di correre nella squadra più forte. La Mapei era uno squadrone tutto l’anno, ma nelle classiche del Nord, e soprattutto nella Roubaix, esagerava, tanto da rendere la regina delle classiche un campionato aziendale. Nel 1996 il già navigato manager Lefevere aveva guidato la corsa dall’ammiraglia, come avesse in mano un joystick. Deve vincere Museeuw, aveva ordinato. Tafi e Bortolami, in fuga con lui, dovettero obbedire; Ballerini, che stava risalendo da dietro, fu invitato ad accontentarsi del quinto posto.

Insomma, non bastava essere il più forte, occorreva anche accordarsi con le rotazioni decise a tavolino. In quel 1998, comunque, le avvisaglie erano buone, anche perché Museeuw aveva placato la “fame” qualche giorni prima, vincendo il Fiandre.

A 60 chilometri dal traguardo Ballerini decise di andarsene. Sembrava una follia…

La corsa mostrò il suo lato più terribile, tra pioggia battente e fango viscido. Ne fece le spese proprio Museuuw, uscito con la rotula fratturata da una caduta nella foresta di Harenberg. In una bolgia di capitomboli e sofferenze varie, Ballerini pedalò con sovrana tranquillità, fino a trovarsi, quasi naturalmente, in un gruppetto in avanscoperta.

A sessanta chilometri dal traguardo decise di andarsene, con una mossa apparentemente imprudente, ma che rivelava una sicurezza inattaccabile. Gli rimase alla ruota solo Ludo Dierckxsens, un belga di discreto spessore che si consumò lentamente alla sua ruota. A 35 chilometri dalla fine, a Ballerni bastò una lieve accelerata sul pavé per rimanere solo.

Alle sue spalle, un gruppetto di otto, con i bellicosi Moncassin, Sorensen e Van Bon sottoposti alla guardia dei Mapei Tafi e Peeters. Comunque, il Ballero da solo, apparentemente senza soffrire, andò più forte degli inseguitori, tanto da dilatare il vantaggio fino a 4 minuti. L’unico spettacolo negli ultimi chilometri fu vedere la sua pedalata composta e rotonda.

All’ingresso nel velodromo ebbe tutto il tempo di godersi l’ovazione del pubblico. Il podio fu ovviamente tutto Mapei, con il secondo posto di Tafi e il terzo di Peeters. Per Tafi la lunga anticamera era finita: l’anno dopo sarebbe toccato a lui.

E una settimana dopo, il “miracolo” di Bartoli a Liegi

La campagna del Nord proseguì con un altro bis italiano, una settimana dopo la Roubaix: Michele Bartoli vinse la Liegi, un anno dopo il primo trionfo. «Mi viene voglia di andarmene a casa», aveva detto il giorni prima, innervosito da una bronchite che sotto sforzo gli stringeva il respiro. E in corsa, stava in effetti per risalire in ammiraglia, scosso dalla tosse. Poi la crisi passò e nel finale con un paio di scatti fece il vuoto. Miracoli della classe.