Ursella è tornato: «L’infortunio al malleolo è alle spalle e ora vorrei sbloccarmi alla Flèche du Sud»

Ursella
Lorenzo Ursella con la maglia della Dsm Development al training camp della squadra (foto: PB Prod)
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«Quasi un anno buttato via», dice Lorenzo Ursella. Però esagera, se ne rende conto e si ricrede. «Sicuramente il mio primo tra gli Under 23 non l’avevo immaginato così. La scelta era ricaduta sulla Dsm perché non volevo perdere l’opportunità di una grande esperienza all’estero per crescere sia atleticamente che umanamente. Avrei vissuto dei momenti difficili, certo, ma ne ero consapevole e l’idea non mi spaventava più di tanto. E invece, per colpa dell’infortunio, ho passato più tempo a casa, a Buja, che a Sittard, in Olanda, dove la squadra ha il quartier generale».

Alla fine di aprile dello scorso anno, nella terza tappa del Tour de Bretagne, Ursella era riuscito giusto in tempo ad evitare una caduta e ad appoggiare il piede in terra quando un altro corridore lo aveva centrato, spaccandogli il malleolo e costringendolo a sette settimane col gesso. Dal punto di vista del calendario, quello sì, quasi una stagione buttata via.

Come stai, Lorenzo?

«Meglio, se dio vuole. Nel 2022 sono rientrato per partecipare soltanto a qualche gara, mi serviva per non perdere ulteriormente l’abitudine col gruppo. Durante l’inverno non mi sono mai fermato, di tempo ne avevo già perso a sufficienza, e adesso mi sento bene. Ho fatto la riabilitazione e non ho avuto intoppi. Per il momento nel 2023 ho corso poco, la prima gara è andata benino e nelle altre due ho avuto un po’ di sfortuna, ma la mia stagione entra nel vivo da ora in poi».

In che modo?

«Prima, con la nazionale della pista, correrò il Giro di Sicilia. Poi, con quella di Bennati, dovrei essere al via del Giro della Provincia di Reggio Calabria. Con la Dsm, invece, sarò al via della Flèche du Sud dal 17 al 21 maggio: è una gara a tappe molto importante che si disputa in Lussemburgo e sinceramente, arrivandoci dopo le due esperienze in azzurro, proverò a centrare qualche bel risultato».

In cosa il 2022 non è stato un anno buttato?

«Ho iniziato a respirare un’aria differente, questo sì: ho conosciuto i compagni, nuovi e stranieri, ho preso parte a qualche gara di lassù e ho imparato abbastanza bene l’inglese, che adesso parlo senza problemi. Ho capito quant’è importante confrontarsi con professionisti esperti: io ero abituato a fare spesso di testa mia e a non fidarmi troppo degli altri, ma durante i mesi di convalescenza se non avessi comunicato costantemente con certe figure della squadra sarebbe stata molto più dura».

Il tuo fisico come sta rispondendo?

«Direi bene, meglio del previsto. Io stesso mi rendo conto di quanto sto crescendo: tanto e in fretta. Adesso stiamo lavorando sulla resistenza in pianura e in salita: ne ho bisogno, perché i percorsi che affrontiamo sono esigenti e io ho bisogno di irrobustirmi, se voglio arrivare in volata per giocarmi il successo».

Quindi ti consideri ancora uno sprinter?

«Assolutamente sì, senza dubbio. Nelle categorie inferiori ho sempre vinto in volata e la stessa Dsm mi considera tale. Sono alto 1,80 e peso 77 chili, difficilmente potrei essere qualcosa di diverso Preferisco gli sprint di gruppo e, se dipendesse da me, non mi lancerei mai prima dei 150 metri finali. Ho una volata corta e mi muovo piuttosto bene pure autonomamente, ma se posso sfruttare il lavoro dei miei compagni tanto meglio».

Chi sono i tuoi sprinter di riferimento?

«Più che gli sprinter, direi i corridori di riferimento. Di Cavendish ammiro la passione e la determinazione. Ne ha passate di tutti i colori, è sulla cresta dell’onda da quindici anni, eppure riesce a combattere ancora con chi ha dieci anni in meno. L’altro giorno, a 37 anni, è arrivato terzo allo Scheldeprijs vinto da Philipsen, tanto per capirsi. Non ha perso il suo spunto veloce nonostante l’età e già per questo merita ammirazione e rispetto. L’altro è Sagan, per l’idea di ciclismo che ha saputo incarnare con successo: il suo primo mondiale, quello di Richmond, ce l’ho impresso».

Perché le volate?

«Intanto perché non si decide né dove andare forte né con che fisico e caratteristiche nascere. Ma io sono stato fortunato, perché riesco bene nell’esercizio che mi piace di più. Io vivo per quei cinque chilometri finali, per quella morsa allo stomaco che sento quando tiro una spallata o imposto bene una curva. Nella vita di tutti i giorni sono timido, ma in bici mi trasformo e in generale sono un amante del rischio».

Come lo ricerchi nella tua quotidianità?

«Col motociclismo, ad esempio, un passione che mi hanno trasmesso gli zii. Per un attimo, tanti anni fa, ho anche pensato di farlo diventare uno sport, ma costava troppo e non potevamo permettercelo. Ogni tanto giro in pista, adesso sto mettendo da parte i soldi per ricomprarmi una moto da cross, che prima usavo regolarmente. La squadra si fida, non mi fa storie. Non sono stupido, so quello che faccio e non rischio oltre un certo limite».

In quali occasioni vorresti essere coinvolto in nazionale?

«Vestire la maglia azzurra è sempre un piacere, quindi non voglio fare lo schizzinoso. E sinceramente non conosco nemmeno nel dettaglio il calendario che farà Amadori. Però sarebbe bello partecipare all’Avenir e soprattutto alla Parigi-Roubaix. Sul pavé ho pedalato, è faticoso ma divertente. Se si tratta della mia corsa preferita? No, quella è la Strade Bianche: affascinante anche se non da velocisti».

Dopo oltre un anno con loro, come ti trovi con l’ambiente della Dsm?

«Mi sono sentito a mio agio fin da subito e non ho cambiato idea. Sono rigidi e metodici? Sì, non lo nego, ma si comportano con chiarezza. Non impongono assolutamente niente, i piani e i progetti di crescita si decidono in due. Ma dal momento che si è d’accordo, allora bisogna dare il massimo senza tanti discorsi. Io non so come funziona la Dsm del World Tour, ma nella nostra development si sta proprio bene».

Come procede l’esperienza olandese?

«Complessivamente direi bene. Al quartier generale di Sittard ognuno di noi ha il proprio piccolo appartamento, in cui vive da solo. Non ci fanno mancare niente, ma dobbiamo cavarcela da soli. Indicativamente passo un mese e mezzo lì e poi un mese a casa. Ogni tanto accuso la solitudine, però succede anche ai miei compagni. Allora, a quel punto, ci ritroviamo e passiamo del tempo insieme. Ci facciamo forza a vicenda, insomma. A casa mi aspetta la mia fidanzata, che mi manca parecchio: lei studia a Pordenone, abbiamo trovato il nostro equilibrio ma siamo pur sempre dei ragazzi di vent’anni che avrebbero bisogno di passare più tempo insieme».