Manolo Saiz: «La Jumbo mi ricorda la mia Once. E Pogacar sembra uno di una volta»

Manolo Saiz alla partenza della Liegi-Bastogne-Liegi 2005
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Manolo Saiz a 63 anni rimane una delle figure più importanti nella storia del ciclismo spagnolo e mondiale. Un uomo che ha cambiato il ciclismo quando era direttore della Once. Nel 2023 cade il 20° anniversario della scomparsa della Once e Saiz ha rilasciato una lunga, interessante intervista con El Mundo Deportivo. Saiz vive lontano dal ciclismo, ma è comunque molto consapevole di tutto ciò che accade nel gruppo. La sua carriera si è conclusa dopo essere stato coinvolto nella Operacion Puerto, anche se in seguito è stato assolto in tribunale. Ora rivede la sua carriera e parla apertamente di tutto quello che è successo.

Vent’anni dopo, qual è la prima cosa che ti viene in mente?

«La prima cosa è la vecchiaia, ho 20 anni in più. Mi vengono in mente tante cose, dal giorno in cui la Once è stata fondata, le prime conversazioni, come è andato tutto… e poi la traiettoria di una vita, che è bello ricordare. Quando passano gli anni, hai già dei nipoti, ti rendi conto che devi conservare le cose belle della vita. E il ciclismo mi ha dato molte cose. Amicizie, conoscenze, viaggi».

Immaginavi nel 1989, quando è nata la squadra, che avrebbe ottenuto così tanto successo?

«Sognavo di cambiare il mondo del ciclismo e renderlo più moderno, e lo stavo realizzando anno dopo anno. È stata l’occasione per mettere sul tavolo le mie idee e dimostrare che quelle idee potevano portare a cose buone. Quando è nata la Once abbiamo preso il secondo posto sulla Ruta del Sol, che avremmo dovuto vincere, abbiamo vinto la Vuelta Valenciana… tutto quello che stavo predicando, quell’inverno doveva essere sfruttato e faceva anche parte del l’allenamento del ciclista, sono stato in grado di metterlo in atto».

Alla domanda sui tuoi migliori corridori, citi Lejarreta, Jalabert o Zulle, ma anche gregari come Leanizbarrutia, Herminio Díaz Zabala o Neil Stephens. Questo dimostra l’importanza che hai dato al collettivo rispetto alle individualità, giusto?

«Sì, o Iñigo Cuesta o molti altri. Il team di Once è stato l’estensione di ciò che Once è come entità, che è un gruppo in cui lavorano insieme, per lottare contro le disabilità, contro le barriere sociali e contro tutto questo. Non abbiamo fatto nulla che il presidente non volesse e 20 anni dopo parlo ancora di Once con lo stesso affetto».

Manolo Saiz con i suoi ragazzi della Liberty Seguros (ex Once) alla Tirreno-Adriatico 2005. In foto Michele Scarponi, Paulinho, Marino Lejarreta, Angel Vicioso

La mitica tappa di Mende al Tour ’95 è il capolavoro di Once in termini di strategia di squadra o tattica?

«Credo di si. La prima squadra a portare le cuffie è stata Motorola, ma non le volevano, e io ho preso quello che non volevano e ne abbiamo approfittato. Quando ascolto i dibattiti sul sì o sul no dell’auricolare, dico sempre la stessa cosa, Mende non sarebbe stato possibile senza l’auricolare. Se tutti ricordano lo spettacolo di Mende, tutti devono pensare che l’auricolare sia importante».

Gareggiare contro Indurain è stata una fortuna o una sfortuna?

«Per me è stata una fortuna. Qualcuno che dimostra di essere più bravo di te, che ti batte, ti fa crescere, ti fa pensare e ti fa migliorare per le gare successive. Miguel è arrivato perfettamente al Tour, forse non lo sapevamo, o non lo sapevo io perché forse è stata colpa mia non essere arrivato così bene al Tour, o troppo stanco per aver fatto altre gare. Mi sento un amico di Indurain, mi sono goduto le sue vittorie e penso che Indurain sia stato fondamentale per il ciclismo spagnolo».

Potevi davvero ingaggiare Indurain per la Once o è una leggenda metropolitana?

«Eravamo vicini, ma alla fine non è arrivato, ma è vero che eravamo vicini. Penso sempre a quello che sarebbe successo con Miguel in squadra, ma per fortuna mi considero suo amico, ci parlo e ci incontriamo ogni tanto».

Con i loro metodi innovativi, il blocco Once e il potenziale di Indurain, cosa avrebbero potuto ottenere?

«È difficile fare più di quello che ha fatto Miguel: ha vinto tutto. Forse con me avrebbe vinto una Vuelta a España».

Manolo Saiz con Michele Scarponi all’arrivo della settima tappa della Tirreno-Adriatico 2005 a San Benedetto del Tronto

Cosa ne pensi del ciclismo attuale?

«Vedo Pogacar e penso che sia un ciclista con un temperamento di una volta. È coraggioso, aggressivo, combattivo… lo seguo da quando era junior. Vingegaard è il risultato di un grande lavoro di squadra, Evenepoel è anche molto coraggioso, mi piace molto Pidcock, quello che fanno Van Aert e Van der Poel è uno spettacolo… E penso che Juan Ayuso sarà migliore tra gli spagnoli, ma ai miei tempi penso che avrei scommesso di più su Carlos Rodríguez, penso che si sarebbe inserito meglio».

Cosa significa?

«Non lo conosco, questa è l’impressione che mi dà. Non voglio che le mie parole vengano interpretate male, perché ho già detto che penso che Ayuso sarà un corridore migliore, ma Carlos Rodríguez mi sembra una persona più nobile, più simile a me, più vicino, e Ayuso sembra più arrogante. Forse non è così e quando li conosci è diverso, ma è quello che provo da spettatore».

Pogacar, Vingegaard, Evenepoel… hanno iniziato a vincere da giovanissimi. Avranno carriere più brevi rispetto ai ciclisti del loro tempo?

«Penso di no, l’unico fattore che deve essere preso in considerazione è se reggono psicologicamente. Ma fisicamente non si finiranno, perché alla fine fanno 60-70 giornate di gara, quando prima ne facevamo almeno cento. E la competizione è più divertente. Fanno molti giorni di ritiro, in quota, da soli, con un partner, ma penso che psicologicamente stiano pedalando molto duramente. Se tiene la testa, fisicamente possono essere lì per 10-12 anni come prima».

La Jumbo ricorda a molti di noi la Once, per la forza del collettivo e la strategia in gara.

«L’altro giorno, guardando la cronometro a squadre della Parigi-Nizza, la Jumbo mi ha ricordato la Once, emotivamente li sento più vicini per il loro modo di lavorare, ma il coraggio di Pogacar mi ricorda Jalabert, per esempio».

Manolo Saiz in uno scambio con Ivan Basso alla Tirreno-Adriatico 2005

La tua carriera di direttore sportivo di ciclismo si è conclusa dopo il tuo arresto nell’operazione Puerto, ma sei stato successivamente assolto dai tribunali. Quella ferita è ancora aperta?

«La ferita è ancora aperta, perché nessuno ha chiesto perdono e nessuno ha riparato il danno fatto. La cicatrice c’è e la vedo tutti i giorni, mi sveglio ancora di notte con il rumore di quel secondo cancello, rinchiuso nella stessa prigione dove hanno messo i membri dell’ETA. Ho perdonato tutti, anzi tutti tranne uno che è già venuto a mancare, quindi è una questione che considero chiusa, anche se la cicatrice ci sarà sempre. Mi sarebbe piaciuto poter tornare indietro, ricominciare da zero, rifare quello che ho fatto con Once, perché mi sarebbe piaciuto poter dire addio come avrei voluto. La Once era la squadra più pulita dell’intero gruppo e so cosa hanno fatto le altre squadre. Ho difeso gli altri e lì si è vista la vigliaccheria del resto delle squadre, del Tour, dell’Uci… Ma cerco di non soffermarmi, ora la mia vita è un’altra cosa, ho i miei nipoti».

Perché non sei tornato?

«Perché quando ci ho provato, non me l’hanno permesso. Ci sono stati ordini perché non tornasi, ordini dal Tour e dall’UCI, perché sanno che avrei lottato contro di loro. Ricordo ancora quando nel 1995 dissi che temevo che il Tour comprasse la Vuelta. Mi hanno chiamato pazzo, che dovevo andare dallo psicologo e invece anni dopo è successo. Il monopolio è la cosa peggiore che può capitare al ciclismo».

Hai la sensazione di essere stato un capro espiatorio?

«L’intera squadra ha quella sensazione. E ce l’hanno tutti. Ho ancora la ferita aperta, la cicatrice. Ma è una ferita che mi permette di vivere serenamente. E questo è ciò che è importante per me, il resto, se deve venire, verrà. Le brave persone hanno sempre un momento, e io mi considero una brava persona».

Sei stato assolto dall’operazione Puerto, ma il tuo nome è rimasto per sempre legato al doping.

«Sono stato sulla copertina di El País cinque volte, non so se ci sarà qualche membro dell’ETA che è stato sulla copertina di El País cinque volte. Ho subito una campagna mediatica importante, e che ha permeato l’opinione pubblica, alla quale non sono state spiegate le cose. Hanno spiegato solo quello che erano interessati a spiegare, ma non ne tengo conto neanche io, posso vivere serenamente con me stessaoe con le persone intorno a me».

Ma tu eri imparentato con Eufemiano Fuentes, che lavorava con la Once.

«Sì, ha lavorato nel ’90 e nel ’91 con me. E stiamo parlando dell’anno 2006 (Operacion Puerto). Ho avuto una relazione con lui, perché aveva una figlia cieca e sua figlia di due anni doveva essere inclusa come membro di Once e a quell’età non era possibile, per questo ho parlato spesso con lui, a causa della figlia e perché mi trovavo bene con lui. Eufemiano ha lasciato la Once nel 1991 per soldi e, guarda caso, è andato nella squadra del presidente della Federazione Ciclistica Spagnola. E nessuno ha accusato di doping il presidente della Federazione Ciclistica Spagnola, penso che ci siano tante cose che, se le spieghi bene, ti portano su una strada diversa da quella che volevano mostrare».

Manolo Saiz e Manuel Saiz con Roberto Heras al termine della Vuelta di Spagna 2005 (foto: Marketa Navratilova)

Hai detto che Once era la squadra più pulita del gruppo. Dirai mai la verità e tutto ciò che sai?

«Non devo dire tutta la verità, perché come ho detto tante volte il ciclismo mi ha plasmato e mi ha regalato parte della mia vita, devo essere grato al mondo del ciclismo, che non merita di continuare ad essere infangato o sporcato, io non lo farò mai».

Prima si dopavano tutti e ora no?

«Immagino che ora ci saranno le stesse cose di prima, il ciclismo di Guimard aveva le sue cose, Merckx altre, e altre ancora negli anni ’90, nel 2000… e ora ci saranno altre cose. Quando guardo una gara guardo cosa fanno prima, dopo, durante la competizione, ma non mi viene mai in mente di pensare: questo ragazzo deve fare qualcosa per riuscire a fare a questo. Eppure questa è la mania del mondo del ciclismo».

Hai la coscienza pulita e serena rispetto a quegli anni?

«La mia coscienza è pulita e serena sotto l’aspetto sportivo. Se desidero di poter tornare indietro è perché vorrei riscrivere il mio finale e perché penso di dover qualcosa alla mia famiglia, agli amici, a qualche ciclista».