Franceschi, una vita alla Mastromarco: «Sognavo il professionismo, poi mi sono dedicato ai più giovani»

Carlo Franceschi, presidente del Team Mastromarco Sensi Nibali
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All’inizio degli anni ’60, nella piccola Mastromarco, alcuni appassionati di ciclismo vollero allestire una squadra di ragazzi. Quattro o cinque, non di più: meglio non esagerare e procedere con calma (tenetela da parte, tornerà buona: è la loro filosofia). Tra quelli c’era anche Carlo Franceschi, che viveva in paese. Ci vive tutt’oggi, a dire la verità: della Mastromarco sarebbe diventato direttore sportivo, presidente, deus ex machina.

Ma all’inizio, quando Franceschi era ancora un giovane di belle speranze, per lui il ciclismo era quello pedalato: non quello gestito. «Iniziai a correre nel ’60. Al primo anno tra gli esordienti, ero a Empoli, vinsi dodici gare. Poi, tra gli allievi, vinsi anche il campionato italiano a Trento. Arrivammo in una settantina, io li infilai tutti in volata. Diciamo che da corridore qualche piccola soddisfazione me la sono levata».

Quindi eri un velocista?

«Eccome. E anche abbastanza bravino. Con le categorie che si adoperano oggi, probabilmente sarei definito un velocista moderno. Ero veloce, ma reggevo anche in salita. Mi piaceva attaccare e prendere vento, non ero uno di quelli che si nascondeva. E poi adoravo gli sprint lunghi: non aspettavo gli ultimi cento metri, avevo il chilometro nelle gambe».

Chi erano i corridori che ammiravi?

«Sicuramente Gianni Motta, col quale ho corso anche insieme. Non era il più forte della sua epoca, ma lo reputavo completo ed estremamente talentuoso. Però il migliore di tutti era Eddy Merckx: ambizioso, cattivo, potente, non mollava mai l’osso. Un mastino, al di là dell’indubbia classe».

Se ripensi alla tua carriera da corridore hai qualche rimpianto?

«Assolutamente sì, forse sarei potuto entrare nel professionismo se il contesto intorno a me non fosse drasticamente cambiato. Il babbo s’ammalò e non riusciva più a lavorare. La mamma aveva una casa a cui badare, la mia sorella minore andava a scuola. Toccò a me, prima e dopo il militare, rimboccarmi le maniche per portare a casa la pagnotta».

E la Mastromarco come ha continuato a far parte della tua vita?

«Dopo aver smesso di pedalare rimasi nell’ambiente per dare una mano. Poi diventai direttore sportivo e salii in ammiraglia. Sono sempre stato severo, a volte perfino troppo, ma non ho mai trattato i ragazzi con superficialità. Ho sempre cercato di capire chi fossero, cosa volessero, perché pensavano una cosa piuttosto che un’altra. Ognuno ha la propria storia, io mi facevo raccontare la loro nella speranza di inquadrarli nella maniera giusta».

Gabriele Balducci, in basso, insieme a Carlo Franceschi durante un ritiro della Mastromarco nel 2015

Il tuo posto, dal 2014, lo ha preso Gabriele Balducci: per lui hanno usato lo stesso stampo tuo.

«L’abbiamo sempre conosciuto. Lo volevamo prendere da corridore, ma nonostante un corteggiamento durato mesi non ci fu verso. Quando lui smise di lavorare con Marcello Massini, ci rifacemmo sotto: stavolta lo volevamo come direttore sportivo. Alla fine ce l’abbiamo fatta. E’ uno dei nostri, la pensiamo nella stessa maniera. Anche lui è severo, ma i ragazzi capiscono quanto sia competente e appassionato. Non è mai una severità fine a se stessa».

L’anno prima, nell’estate del 2013, eri diventato presidente della Mastromarco.

«Da quando scomparse il povero Malucchi. Eravamo amici, sentivo una responsabilità enorme nei confronti di tutti. E’ andata bene, ci siamo sempre divertiti raccogliendo bei risultati e lanciando più d’un corridore tra i professionisti. Però devo ringraziare gli sponsor e chi ci è stato vicino: è più facile mettersi in mostra potendo contare ogni anno su un organico di buon livello».

Chi è il corridore al quale sei rimasto più legato?

«Inevitabilmente Vincenzo Nibali, che ho tenuto in casa per anni e che considero a tutti gli effetti un figlio. Il Tour del 2014 rimane il successo più grande della sua carriera, ma se fosse un artista il suo capolavoro sarebbe la Milano-Sanremo del 2018: quando un corridore vince in quella maniera una corsa così prestigiosa e che non gli si adatta alla perfezione, cos’altro si può dire? Un lampo di fantasia, di coraggio, d’improvvisazione. Di classe, insomma».

Vincenzo Nibali e Carlo Franceschi al Tour de France 2012 nella serata che seguì l’undicesima tappa Albertville-La Toussuire 

Ma è anche il corridore che ti ha fatto arrabbiare di più, no?

«Lo puoi urlare. Quante corse ha buttato via per il piglio scriteriato con cui attaccava. Sprecava come se le sue energie fossero infinite. Io mi arrabbiavo tanto e quando, a cena, glielo facevo notare, lui spesso e volentieri si alzava da tavola. Ma era giusto dirglielo. Però che bellezza quando trionfava dando spettacolo. Sceso dal podio veniva da me e mi diceva: hai visto che si può vincere anche correndo come dico io?».

Tuttavia da Mastromarco ne sono passati parecchi. Bettiol e Caruso, tanto per citarne due, stanno vivendo il miglior momento della loro carriera.

«Ho un ottimo rapporto anche con loro, senza dimenticare Richie Porte. So che Bettiol ha risolto finalmente i suoi problemi fisici: ecco, secondo me per i prossimi tre o quattro anni ci farà divertire. Ha talento, intelligenza, mestiere: vincerà ancora belle gare. Damiano, invece, col senno di poi avrebbe dovuto mettersi in proprio prima senza dedicarsi esclusivamente al gregariato. Così facendo ha perso alcuni anni che nessuno gli restituirà più. Sono contento che torni al Giro, spero sia ancora una volta uno dei protagonisti».

C’è un corridore che secondo te avrebbe potuto raccogliere di più?

«Paolo Baccio, che tra gli Under 23 quand’era con noi vestì la maglia di campione italiano delle cronometro conquistando anche classiche come Mercatale e il Piva. Un bel talento non supportato da una mentalità sufficientemente forte: vinceva una gara e si adagiava, gli sembrava di essere già arrivato. E invece nel ciclismo bisogna rinnovarsi e migliorarsi ogni volta che si può, altrimenti ti sorpassa anche l’ultimo della lista. Per quanto riguarda i corridori passati professionisti, invece, nulla da dire: ognuno di loro ha raccolto abbastanza, mai meno di quello che mi aspettavo».

Alberto Bettiol alla Mastromarco nel 2013

C’è una corsa che non hai mai conquistato e che sogni di vincere?

«La Firenze-Mare, la classica toscana di Ferragosto. Non so dire perché, ma anche quando avevamo corridori adatti non l’abbiamo mai vinta. Sarebbe una bella soddisfazine, per una realtà toscana come la nostra».

E’ difficile avere a che fare coi ventenni di oggi?

«Sì, più di prima. Tecnicamente parlando sanno tanto, forse troppo, e quindi si fa fatica a tenerli a bada e a portarli dalla propria parte. Il problema è che pensano di sapere tutto, credendo di poter fare di testa loro senza ascoltare nessuno. Per assurdo, tanto sanno di ciclismo quanto poco conoscono l’essere umano: a volte si perdono in un bicchier d’acqua, non sanno cosa vogliono, sono tanto esperti quanto immaturi».

Meglio prima? Ma ha senso dirlo?

«Se ha senso non lo so, a volte ci penso anche io. Di sicuro prima era diverso. Ti direi che prima era meglio, ma magari sono io che invecchio. Era tutto più semplice, più spartano, più artigianale. Si andava a sensazione, si distingueva chi aveva occhio, talento e intuito. Eravamo meno precisi, certo, ma non l’abbiamo mai accusato come una mancanza. E i ragazzi, avendo delle conoscenze più superficiali, si fidavano più facilmente di noi. Nel bene e nel male, si capisce: conosco tanta gente coi capelli bianchi che non ha insegnato quello che avrebbe dovuto».

Carlo Franceschi cos’ha insegnato, invece?

«Non credo d’aver insegnato niente perché non mi sono inventato niente. Io mi sono rimesso al ciclismo, alla sua storia, alle sue leggi: scritte e non scritte. Io grazie a questo sport ho imparato a stare al mondo, ho capito cosa vuol dire essere seri e onesti. Eppure per una vita ho fatto anche altro: l’operaio per una ditta di edilizia, guidavo il camion e lavoravo con le gru. Sono andato in pensione nel 2000, non ero vecchio, ma in compenso cominciai a lavorare alla fine delle elementari. La mia vita l’ho vissuta, no?».