Il viaggio di Ansaloni: «Voglio far bene al Giro e mi affascina la Sanremo. Con Coppolillo punto al professionismo»

Ansaloni
Emanuele Ansaloni in azione con la maglia della InEmiliaRomagna. (credito: Massimo Fulgenzi)
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Emanuele Ansaloni parla come si usava una volta. Quasi come gli anziani, che in Emilia-Romagna (la sua regione) si continuano ad ascoltare più che da altre parti. Di Nibali, ad esempio, uno dei suoi corridori di riferimento insieme a Sagan, dice che «è un bel corridorino»: come se l’età e il palmarès di Nibali l’avesse lui e il siciliano non fosse nient’altro che un giovane di belle speranze. D’inverno, invece, gli è capitato di far fruttare il diploma da meccanico, riparatore auto, andando a lavorare «per mettere da parte qualche soldino, ché fanno sempre comodo»: sono pochi i coetanei di Ansaloni, ventidue anni l’11 febbraio (auguri), che parlano ancora così.

Di Bentivoglio, in provincia di Bologna (quindi Emilia, la Romagna è quella sul mare, compresa tra Appennino, Adriatico e le zone più settentrionali delle Marche), Ansaloni ha iniziato ad andare in bici per scommessa. 

«Il ciclismo non mi piaceva, non lo comprendevo. Ho giocato per qualche anno a calcio, poi a basket. Allo stesso tempo, però, avevo un paio d’amici che pedalavano. Un giorno esco insieme a loro, pedaliamo e pedaliamo e io mi rendo conto di sentirmi bene, a mio agio. Non dico niente, ma sento d’essermi innamorato. Usciamo qualche altra volta, io faccio sempre meno fatica a seguirli. A quel punto avevo preso confidenza e dissi loro: adesso vengo alle gare e vi batto. E’ andata proprio così».

No, è andata meglio di così. Emanuele Ansaloni sta per cominciare la sua quarta stagione tra i dilettanti. La terza, quella passata, avrebbe potuto essere l’ultima. Si era dato un ultimatum: o vinco o smetto. Ha vinto: primo a Montecosaro, nel maceratese, al Trofeo Santissima Addolorata. Non una classica internazionale, bisogna essere onesti, ma una vittoria è sempre una vittoria.

«Comunque mi son pur sempre fatto quasi trenta chilometri da solo. In centodieci chilometri di gara c’erano più di duemila metri di dislivello, l’arrivo in cima ad uno strappo in pavé: diciamo un percorso adatto ad un passista-scalatore come me. Siamo rimasti in nove, noi dell’InEmiliaRomagna eravamo in superiorità numerica. Poi c’ho provato, nessuno mi ha seguito, i miei compagni mi hanno coperto e sono arrivato da solo. Ciuccarelli, che l’anno scorso ha vinto una tappa al Giro e a Capodarco, è arrivato a tre minuti: non è che corressi da solo. Ero contento e in pace con me stesso: un segno, seppur piccolo, l’ho lasciato».

Emanuele Ansaloni della inEmiliaRomagna vince il Trofeo Santissima Addolorata (credito: Stefano Ballandi).

Ma per passare professionista, perché alla fine questo è l’obiettivo di Ansaloni e di tutti i suoi giovani colleghi, una vittoria a Montecosaro nel Trofeo Santissima Addolorata non è sufficiente. Michele Coppolillo, direttore sportivo della InEmiliaRomagna, glielo ricorda sempre: non bisogna mai accontentarsi, per la carriera ma soprattutto per se stessi.

«Io e lui siamo simili, per questo bisticciamo in continuazione. Entrambi umili e lavoratori, ma testardi e determinati. Coppolillo è duro ed esigente, non ti lascia adagiare sugli allori. Se sei stato bravo lo pensa, ma raramente te lo dice. Ma in fondo è un buono, borbotta sempre ma non si arrabbia mai, per fargli perdere la pazienza bisogna commetterla grossa. E’ una brava persona e sa di cosa parla».

Prima Tarozzi, adesso Dapporto in rampa di lancio: magari Ansaloni, un domani, riuscirà ad entrare nella massima categoria?

«E’ quello che voglio, questa stagione sarà decisiva. Cercherò di mettermi in mostra soprattutto al Giro, la gara della categoria che preferisco. Tra l’altro al Giro, ma dei professionisti, è legato il mio primo ricordo ciclistico televisivo: c’era Quintana in maglia rosa. Però a loro invidio la Milano-Sanremo: infinita, con una tradizione ultrasecolare, si passa dalla noia della prima parte all’effervescenza della seconda. Possono vincere tutti, come sempre la spunta uno soltanto. Non necessariamente un campione, peraltro».

L’ultimo italiano ad averla conquistata è, guarda caso, proprio Nibali. L’altra stella polare di Ansaloni, Sagan, l’ha sempre accarezzata – talvolta letteralmente buttata – e ancora mai centrata.

«Di Nibali ammiro la grinta e la scorza; non muore mai. Può darsi anche che la mia sia solidarietà, io proprio non capisco perché l’Italia lo odia così tanto. Ha un palmarès incredibile, uno dei più importanti degli ultimi decenni: dovremmo essergli riconoscenti. Di Sagan, invece, mi affascina l’esuberanza. Forse perché non mi appartiene e intimamente la desidero. Io mi considero umile, gli altri mi ricordano che a volte lo sono fin troppo. Credo che abbiano ragione, in gara succede che mi sacrifico volontariamente come un dannato anche quando invece potrei mettermi in proprio. Sono fatto così, cosa ci posso fare?».

Nel poco tempo libero che gli avanza, Ansaloni non studia né porta avanti chissà quali attività. Segue l’Inter, nei suoi occhi Barella ha sostituito Lukaku, e lo sport in generale: gli piace l’adrenalina che genera e la paura, perfino quella, che sa suscitare. Vorrebbe riuscire ad entrare nella nazionale: almeno una volta, visto che non ne ha mai fatto parte. 

«Di cose ne vorrei far tante, poi bisogna vedere fin dove arrivo. Ad esempio, da buon emiliano non disdegno i motori. Mio padre, seppur da amatore, ha girato in pista per diverso tempo. E io da bambino ho imparato prima a controllare la minimoto che a pedalare senza rotelle. L’ho detto, al ciclismo mi sono appassionato tardi. Tardi ma non troppo tardi, per fortuna. E’ andata bene, perché pedalare mi rende contento e il ciclismo mi ha regalato un sogno da inseguire».