Sky sta trasmettendo un interessante documentario che ricostruisce tutta la storia di Lance Armstrong. La racconta lo stesso protagonista americano e a fargli da contorno ci sono familiari, compagni di squadra (Hincapie, Landis, Jaksche, Andreu, Vande Velde, Hamilton, Vaughters, Julich), compagne di vita, addetti ai lavori.
I compagni lo descrivono come un vero padrone incapace di creare empatia. Chi non lo assecondava era un nemico da eliminare. Inquietante anche l’immagine che emerge dell’Uci: Verbruggen lo proteggeva perché vedeva in lui la realizzazione della mondializzazione e della massima commercializzazione del ciclismo. Mc Quaid lo avvisa il giorno prima che sta per abbattersi su di lui la tempesta.
Emerge la figura di una persona che ha sfruttato l’immagine costruitasi dopo la guarigione dal cancro e la creazione della sua fondazione Livestrong per costruire una rete di relazioni importanti (politiche, sportive, commerciali) e raggiungere, grazie ad esse, una sorta di onnipotenza. Ed il pentimento di Armstrong che ogni tanto traspare, appare tutt’altro che convincente.
Ecco alcune delle affermazioni ascoltate.
Armstrong sui suoi rivali: «Gli altri ciclisti rivali non mi piacevano e non volevo che mi piacessero. Ed era meglio che le cose restassero così. Li vedevo mentre si stringevano le mani e facevano i carini e pensavo: rammolliti, che cosa fate? Accidenti, tirate fuori un po’ di odio. Invece io ed Ullrich ci rispettavamo».
Sulla strumentalizzazione della sua malattia: «Devo ammettere che qualche volta ho usato la storia del cancro come uno scudo. Ed è stata una vera idiozia. Col senno di poi avrei dovuto separare ciclismo e cancro».
Sul doping: «Se mio figlio mi chiedesse di doparsi? Se Luke che gioca al football mi dicesse che vuole doparsi direi che è una pessima idea. Sei al primo anno di college… il discorso sarebbe diverso se tu fossi nella NFL (la lega professionistica)».
Su Hamilton: «Voleva provare a vincere il Tour de France a tutti i costi. Non voglio una persona così nella mia squadra. Pensi di poter vincere il Tour? Quella è la porta».
Su Lemond: «La storia del bullismo contro Lemond è tutta vera. Facevamo parte della stessa famiglia, quella della Trek. Io usavo le bici e lui aveva la sua linea». Ha fatto di tutto per farlo fuori.
Sulla sua cattiveria: «Il mio gesto più cattivo? Contro Emma O’Reilly, una nostra massaggiatrice (aveva rivelato le pratiche vietate nella squadra, ndr). Chiamare una donna troia è qualcosa di inaccettabile. … difficile fare di peggio. … Ero un idiota in modalità attacco… Avrei detto qualsiasi cosa in quel momento».
Sulle sue bugie: «Quando mentivo ero tranquillo. Tranquillo. Era parte del gioco. Ero talmente abituato che alla fine ero diventato immune a tutto quanto».
Sulle denunce: «Quando sono cominciate a venire fuori le voci denunciavamo tutti e abbiamo stravinto tutte le cause. I nostri successi in ciascuna di quelle circostanze sono stati assoluti».
Su Pantani: «Un eroe popolare. Dava spettacolo nella tappe di montagna. L’Italia lo ha abbandonato. Gettato via. Uno dei suoi eroi. Uno che faceva quello che facevano tutti».
Su Simeoni: «Mi dispiace per Simeoni quanto per Emma (O’Really, ndr) abbassarsi a quel livello, non è degno di un campione perciò mi sono dovuto scusare con lui. L’ho incontrato nel 2013, dopo nove anni, ha detto: “Per nove anni il mondo intero mi ha sempre associato a te”. Quel ragazzo italiano è un pluricampione, ha vinto diverse gare, ma tutti ricordano solo quel giorno perché sono stato uno str…o».
Sulla scelta di non collaborare: «L’opzione tre è quella che ho scelto: non collaboro, fanculo, vi prenderò a calci, venite a prendermi. E perdo tutto. Non cambierei nulla di quello che ho fatto. Mi serviva una catastrofe nucleare e l’ho avuta».