«Quando Moser era il vero anti-Saronni si andava meglio. Ora ci sono molti corridori bravi, ma l’atmosfera è peggiorata. Non è più importante chi vince, la cosa importante è che io perda». Giugno 1983, al termine del suo secondo trionfo al Giro d’Italia, un Saronni al top, campione del mondo in carica, riassumeva davanti ai giornalisti tre settimane dense di polemiche, stoccate e dispetti in corsa.
Sottilmente perfido il riferimento a Francesco Moser, avviato verso il tramonto (così sembrava, prima della resurrezione del 1984) e ritenuto non più che un ex rivale, tirato in ballo solo per sottolineare il comportamento discutibile dei nuovi avversari.
Tra tutti, il “nemico” emergente era Roberto Visentini, che in fatto di spigoli caratteriali e vis polemica non era certo secondo a Saronni. Lui più di tutti aveva messo alla frusta la maglia rosa sulle grandi montagne.
L’ultimo assalto l’aveva tentato nel tappone dei cinque colli, da Selva di Val Gardena ad Arabba, segnato dall’impresa solitaria dell’inatteso Paganessi. Mentre i generali della corazzata Bianchi (Contini, Prim e De Wolf) andavano alla deriva, Visentini attaccò a fondo Saronni, debilitato da serie difficoltà respiratorie e in crisi fin dal Pordoi, secondo dei cinque colli.
«È stata la giornata più dura che abbia mai vissuto al Giro. Mi ha salvato l’esperienza», commentò Saronni, capace comunque di limitare ad appena mezzo minuto il ritardo da Visentini. Il quale, come non di rado gli capitava, al traguardo era nero, soprattutto per la condotta sparagnina di Mario Beccia, peraltro eccellente scalatore: «Ha consumato i tubolari a forza di starmi a ruota».
La cronometro finale, a Udine, non cambiò il verdetto, ma permise l’onore delle armi a Visentini, che rosicchiò un altro mezzo minuto e nella classifica definitiva accusò soltanto 1’07” dal vincitore.

Merckx duro con la maglia rosa: «Si è nascosto per due mesi, non si corre così»
Fu tutto sommato un Giro appassionante, con rimbalzi piccanti a mezzo stampa. Se Saronni si sentiva attaccato da tutti, lo svedese Tommy Prim aveva idee molto diverse, stando almeno ad alcune dichiarazioni apparse su un quotidiano del suo Paese: «Saronni ha comprato tutti – diceva in sostanza – e in cambio concede vittorie di tappa. Noi della Bianchi siamo gli unici ad attaccarlo».
Ai critici si aggiunse Eddy Merckx: «È un Giro senza salite, tanto che Van Impe a 37 anni dice ancora la sua. E Saronni non può correre così: ha vinto la Sanremo, poi si è nascosto per due mesi, andando alla Vuelta (allora si correva a cavallo tra aprile e maggio, ndr) solo per allenarsi».
Non mancò neanche il giallo finale: alla vigilia della crono dell’ultimo giorno, il patron di un’azienda di cerchioni tentò di convincere due camerieri dell’albergo in cui pernottava Saronni a mettere del lassativo nel cibo destinato alla maglia rosa. Smascherato, disse agli agenti che si trattava solo di una trovata pubblicitaria: secondo il piano messo a punto, sarebbe stato lui stesso a intervenire per sventare la minaccia e fare la parte del salvatore. Un tocco di mistero e gran teatro per un Giro che davvero non si fece mancare nulla.