L’incredibile e commovente storia di Bianco, il primo tifoso di Pantani: vernice, salsiccia e politica

Pantani
Le scritte "Pantani" sulle strade del Giro d'Italia.
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Era la diciottesima tappa, da Selva di Val Gardena all’Alpe di Pampeago: 115 chilometri eppure tre salite, tutte e tre di prima categoria. Prima salita: San Floriano, 1512 metri sul livello del mare. Fu lì che Zulle andò all’attacco nel tentativo di sorprendere Marco Pantani. Esercizio di stile, inutile. Seconda salita: Passo di Lavazè, quota 1805. Davanti a tutti scollinò Chepe Gonzalez, che come tutti i colombiani concepiva le strade solamente in verticale. Dietro di lui passò Pantani, secondo, poco oltre Zulle. Sarebbe stata l’ultima salita a decidere, ai 1760 metri dell’Alpe di Pampeago. 

A sei chilometri dal traguardo, avevamo trovato Bianco con la tuta sporca. Le tute dei meccanici sono sempre sporche, la sua però era macchiata di rosa. Aveva fatto la vernice di notte mescolando il bianco e il rosso e aveva passato la mattina a scrivere sull’asfalto appena rifatto. Non era stato lì a pensare tanto ai contenuti: aveva scritto Pantani Pantani Pantani Pantani Pantani finché durava la salita. Quando ci eravamo fermati al suo camper, Bianco era seduto davanti a un pezzo di salsiccia ai ferri. Ogni tanto passava qualcuno per un saluto, e c’era un bicchiere di Sangiovese sempre pronto. Bianco era il fondatore del Club Pantani di Borello, il primo della storia, quando Panta correva fra gli juniores e fuori dalla Romagna non erano in tanti a conoscerlo. Erano quattro amici, avevano messo fuori cinquantamila lire a testa per le prime spese: uno striscione con su scritto Marco Pantani. La fantasia non è mica obbligatoria.

Mentre ci dedicavamo alla salsiccia, era salito sul camper uno vestito da Pantani – anzi da gregario di Pantani: in giallo, non in rosa – ed era Marcellino Lucchi, l’ex pilota di moto, che era venuto su con una bici Mercatone Uno. Poi era entrato un altro – nel camper di Bianco il concetto di distanziamento non era ancora stato formulato – che sembrava Marcello Siboni, uno dei gregari del Panta, soltanto un po’ più vecchio: infatti era il babbo di Siboni, un altro del club, che aveva poco più di trecento iscritti «ma di quelli buoni, di quelli che ci sono anche quando c’è da perdere, e quando le cose vanno male». 

La prima volta che Bianco aveva messo fuori lo striscione con su scritto Marco Pantani, a Borello – che è vicino a Cesena – pensarono che avesse perso la testa e si fosse messo in politica. Girava questa voce, e Bianco non riusciva a capire. Il fatto è che in quel periodo c’erano le elezioni comunali poco lontano, a Mercato Saraceno, e uno dei candidati era un certo Marco Pantani. Soltanto qualche anno più tardi, la prima volta che Pantani il corridore aveva vinto una corsa in salita, il postino di Borello era andato da Bianco e gli aveva chiesto scusa per aver pensato male di lui. Lo striscione con su scritto Marco Pantani era rimasto attaccato al cancello finché il tempo non lo aveva finito

Le scritte “Pantani” sulle strade nate dalle idee di Bianco, il suo primo tifoso.

Quel giorno all’Alpe Bianco ci aveva presentato sua moglie, che aveva preparato provviste per un esercito, e Ivan, il marito di sua figlia, che aveva preso le ferie per esserci sui tapponi. Bianco e Siboni erano al Giro dalla tappa di Vasto, e c’erano anche l’anno prima all’Alpe d’Huez, con due macchine e tredici camper e roba da mangiare per tutti, «anche per quelli che erano venuti dalla Liguria». La sera del trionfo avevano festeggiato con una spaghettata al ragù di pesce. Mari e monti, come sempre.

Quelli del club di Borello esistevano da prima che Pantani fosse Pantani. Bianco si era messo a seguire due corridori, «uno era Marco, l’altro andava più forte di lui, in salita volava, si chiamava Fabrizio Bareghini, poi però si è innamorato». Perso Bareghini, si erano accontentati di Pantani. I momenti brutti erano stati tanti, ma quelli di Borello c’erano sempre. Bianco si ricorda di quando gli ridevano dietro per questa storia di Pantani. «Mi dicevano ma dove vuoi andare con quella pulce?». E lui chiudeva l’officina e andava a pitturare le strade con la vernice rosa. A Pampeago aveva fatto i conti: dall’inizio del Giro aveva consumato 40 chili di vernice diluita con 40 litri d’acqua. Costava diciottomila lire al chilo ma non veniva via neanche con la pioggia, «guai se lo sanno perché è vietata dalla legge, ma per Marco si può rischiare anche la galera».

Era stato davanti a tutti quei Pantani rosa, a sei chilometri dal traguardo, che Marco aveva lanciato il cappellino e aveva attaccato. Una, due, cinque volte. E Tonkov aveva sempre risposto, aggrappandosi al manubrio e all’orgoglio, e sul traguardo lo aveva addirittura anticipato. Ma la maglia rosa se l’era tenuta Panta, fino alla fine. Bianco quel giorno ci aveva raccontato di essere finalmente andato in pensione, «così posso andare anche al Tour». E al Tour infatti lo avevamo ritrovato, era cambiato soltanto il colore della vernice. A proposito di colori: Bianco si chiama Guerino De Santi, ma nessuno lo hai mai chiamato Guerino, perché «da piccolo ero bianco bianco». 

Bianco ha appena compiuto ottant’anni, e molti ne sono passati da quella sera di San Valentino quando un pezzo del suo e del nostro mondo è andato in frantumi. Ma, come dice un proverbio argentino, nessuno ci può togliere quello che abbiamo ballato.