Savino: «La Quick-Step, gli scacchi, l’esame di maturità: sono un giovane in cerca di certezze»

Federico Savino in allenamento con la divisa della sua nuova squadra (foto: Soudal-Quick Step Development)
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A luglio, quando l’esame di maturità sarà definitivamente alle sue spalle, bisognerà chiedere a Federico Savino com’è riuscito a prepararlo e a superarlo. Di certo nelle prossime settimane non si girerà i pollici: i playoff dell’Nba, i mondiali di scacchi, last but not least il calendario che la development della Soudal-Quick Step gli sta cucendo addosso.

«La prossima settimana parteciperò alla Parigi-Roubaix e poi non mi fermerò fino alla fine del mese, dopodiché a giugno stacco anche dare l’esame. Adesso sono in pieno carico, essendo stato fermo un mese e mezzo per un’infiammazione al ginocchio. Comunque, tra lo studio e il resto, le giornate passano alla svelta. Mi è dispiaciuto per l’eliminazione dei Bucks, visto che Antetokounmpo è il mio giocatore preferito, ma nella serie con gli Heat si è visto un Butler irreale, e quindi complimenti a loro».

Sei alto 1,92, a basket te la saresti cavata bene.

«Non lo so mica, alla fine per quel mondo è un’altezza abbastanza consueta. Anzi, sarei stato più basso di tanti altri. Per anni, finché non ho finito le elementari, pedalavo e giocavo a basket allo stesso tempo. Poi ho scelto la bicicletta perché nulla mi dava più gioia di vincere una corsa, nemmeno realizzare il punto decisivo per vincere una partita. La passione per il ciclismo me l’ha trasmessa il babbo, amatore in mountain bike».

E le tue gare le hai sempre vinte.

«Sì, me la son sempre cavata abbastanza bene, mai tuttavia convinto d’essere un fenomeno. Bravino sì, ma ce ne son tanti meglio di me. Una bella dose di consapevolezza l’ho presa nel 2021 e nel 2022, nel biennio tra gli juniores insomma. Non avevo mai corso all’estero, non sapevo cosa aspettarmi. E invece mi sono mosso bene, meglio del previsto: lo scorso anno, quando ho conquistato l’ultima tappa della Corsa della Pace, ho capito che potevo provare ad entrare in questo mondo per davvero».

Savino è approdato quest’anno alla Soudal-Quick Step dopo due anni tra gli juniores nella Work Service Speedy Bike (foto: Soudal-Quick Step Development)

Finché non è arrivata l’offerta del vivaio della Soudal-Quick Step.

«Avevo preso il procuratore, nello specifico Massilimiano Mori, proprio per trovare una bella sistemazione. Lui, parlando del più e del meno, ha fatto il mio nome al talent scout della squadra belga e da allora hanno iniziato a seguirmi. Quand’è arrivata l’offerta, era agosto, ci sono rimasto male: spaesato, intendo. Non me l’aspettavo. Mi hanno fatto fare un test quando avevo già accettato, le lusinghe delle formazioni italiane non mi hanno distratto».

Come mai?

«Come facevo a rifiutare il vivaio della Quick Step? E poi io sono un agonista, una persona che ama le sfide e a cui quindi piace essere messo alla prova. Mi sono buttato e ho accettato il rischio, consapevole del salto che stavo facendo e del mio scarso inglese che adesso sta migliorando rapidamente. Più che io, ad essere impaurita sul serio era mia madre. Credo sia inevitabile».

Che mondo hai trovato?

«Mondo è il termine giusto, perché cambia tutto. Com’è facile immaginare, l’organizzazione è perfetta: ci trattano come dei professionisti e non ci fanno mancare niente. La loro volontà è quella di ricreare un ambiente il più familiare possibile, quindi tengono a tenerci tranquilli e sereni. Specialmente noi primi anni siamo veramente liberi e coccolati. Ci chiedono rispetto e professionalità, ma mi sembra il minimo».

Un ambiente poco stressante, insomma.

«Assolutamente sì, molto meno stressante di come in Italia viene interpretata la categoria degli juniores ad esempio. Non seguiamo una dieta e io, anche grazie all’aumento dei carichi di lavoro, ho già preso qualche chilo: lo scorso anno ero sui 69 chili, adesso dovrei essere 72. Nessuno mi ha chiesto di portare risultati e sono tutti molto comprensivi quando si parla degli impegni scolastici. Non potevo trovare un ambiente migliore».

Correre in Belgio cosa significa?

«E’ assurdo e illogico. C’è tensione dall’inizio alla fine, ad essere diversi sono proprio i territori e le strade. Recentemente mi sono reso conto di non sapere cosa fosse realmente un ventaglio, l’ho capito correndo al Nord. Senza dimenticare il livello degli avversari: gareggiare contro i ragazzi della Dsm, della Groupama-Fdj, della Jumbo-Visma e della Lotto Dstny è la normalità. L’ambientamento non è immediato, lo so bene, ma ho già avvertito una crescita notevole».

Van der Poel
Mathieu Van der Poel in azione alla Parigi-Roubaix 2023 (foto: A.S.O./Ballet)

Potrebbe essere quella, ovvero il Belgio, la tua terra d’elezione?

«Sarebbe bello, me lo auguro. Sinceramente non ho ancora capito bene che corridore sono: lo spunto veloce non mi manca e in salita me la cavo benino, pur essendo troppo alto e pesante per reputarmi uno scalatore puro. L’idea potrebbe essere quella di mettere su massa muscolare per puntare alle classiche: la Liegi, il Giro delle Fiandre. Come Van der Poel, il mio idolo».

Perché proprio lui?

«Perché è il più grande di tutti: ha stile, è spettacolare, è forte e bello da vedere, vince ed è riconoscibile. Siccome la mia corsa preferita è la Strade Bianche, l’altro giorno mi sono allenato sui rulli rivedendo per l’ennesima volta l’edizione dominata da Mathieu nel 2021. Non mi stanco mai di vederlo in azione».

In cosa ti diplomi a giugno?

«Iti, elettronica. Studiare non mi è mai pesato eccessivamente, me la son sempre cavata bene, però non è la mia più grande aspirazione. Dopo la maturità mi concentrerò unicamente sul ciclismo almeno per un anno, poi si vedrà che piega prende la mia vita. Preparare l’esame in mezzo a tante trasferte non sarà facile, ma con un po’ d’organizzazione si può fare tutto».

Senza dimenticare i mondiali di scacchi che stai seguendo e che terminano lunedì.

«E’ una passione nata durante la pandemia e il successivo periodo della quarantena. Mi piace l’aspetto psicologico: non si tratta soltanto di muovere le pedine, ma di costruire la manovra e di cercare di prevedere le mosse dell’avversario. Mi tiene in allenamento, mi obbliga a ragionare, ad andare oltre quello che vedo. Nel ciclismo servono come prima cosa le gambe, ma il cervello va tenuto sempre attivo e sveglio. E’ una bella palestra, per me che sono giovane e ho tanti difetti su cui lavorare».

Tipo?

«Ne dico uno: mi abbatto troppo. Devo costruirmi un sistema di certezze solido, non posso rimettere tutto in discussione ogni volta che qualcosa non va come vorrei o come avevo immaginato. Devo imparare a reagire diversamente alle situazioni negative. Però, se posso, vorrei elencare anche almeno un pregio: la dedizione. Quella che spinge tutti noi più o meno giovani corridori a fare sacrifici per altri assurdi, impensabili e inammissibili. Ma è la passione che ce li fa fare».