I “lamenti” di Milo Infante sulla Tirreno-Adriatico: interviene Piccione

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Tutto ha avuto inizio a partire da un episodio un po’ infelice: Milo Infante, conduttore del talk di approfondimento “Ore14”, deve cedere la linea alla Tirreno-Adriatico — che si sposta da Rai Sport a Rai 2 per il finale della prima tappa — ma l’idea non sembra entusiasmarlo particolarmente. Non sa nulla della gara, chiede aiuto ai collaboratori e annuncia poi il passaggio del testimone televisivo con una certa sufficienza, sbagliando anche il nome della corsa (che diventa la Tirreno-Adriatica). La stessa scena si ripete più o meno identica nei giorni successivi.

Il comportamento di Infante non passa inosservato, anzi: arriva a parlarne persino Aldo Grasso, che commenta i «continui lamenti di Milo Infante» sul Corriere della Sera. Come arriva il teatrino di “Ore14” all’attenzione di Grasso? Galeotti furono alcuni tweet di Leonardo Piccione, uno dei fondatori del magazine online Bidon-Ciclismo allo stato liquido che il giornalista del Corriere definisce (a ragione) un «raffinato scrittore e grande appassionato di ciclismo». La “querelle” si esaurisce con un post scritto dallo stesso Infante, in cui il conduttore attacca senza troppi giri di parole tanto Piccione (anzi, «un signore di nome Piccione, grande esperto di ciclismo», come scrive piccato l’autore) quanto naturalmente Grasso.

 
 
 
 
 
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Sedimentato il polverone, abbiamo fatto due chiacchiere tra il serio e il faceto con Piccione, per provare a trarre dalla questione una riflessione più ampia.

Quanto ti ha divertito questa storia? Ti senti all’altezza del titolo di “grande esperto di ciclismo”?

«Mi sono divertito un bel po’. Ho trovato subito che questa storia del conduttore di un programma di cronaca nera e vicedirettore di rete infastidito dall’irruzione nella sua fascia oraria di un evento sportivo di cui apparentemente non conosceva nemmeno il nome contenesse elementi spassosi. Il resto l’ha fatto lui, comunicando la sua malcelata insofferenza con una mimica e dei tempi perfetti, comici nel senso più positivo del termine. A me è bastato condividere ogni giorno sull’ex Twitter lo spezzone video del lancio della corsa, aggiungendo poco o niente di mio. La cosa di lì ha preso piede ed è finita sul Corriere della Sera e altri media nazionali, ma da parte mia non c’era alcun intento polemico. Io non sono né un critico televisivo né tanto meno un collaboratore di RaiSport – loro sì avevano il diritto di risentirsi. In quanto al titolo di “grande esperto di ciclismo”, se accendere la tv quasi solo per guardare gare di biciclette e scriverne o parlarne con una certa frequenza bastano a guadagnarselo, allora accetto e ringrazio. Ma a dirla tutta non credo di meritarlo».

Hai giustamente preso con ironia la vicenda, ma resta comunque un po’ triste che il ciclismo in Italia venga (troppo spesso) considerato in questi termini. Il lavoro che porti avanti con il collettivo Bidon che tipo di narrazione insegue?

«Bidon è nato ormai diversi anni fa dall’idea che il racconto del ciclismo, via via più intasato di immagini e numeri, possa ancora servirsi delle parole. Questo non vuol dire che non ci interessino l’approccio scientifico allo sport, gli approfondimenti tecnico-tattici delle corse o lo svisceramento analitico delle prestazioni, che, quando sono ben fatti, personalmente mi appassionano. Però sono convinto che in molti casi la forma comunicativa più efficace per raccontare il ciclismo, per provare ad aggiungere qualcosa alle infinite ore di diretta televisiva, sia ancora quella da cui questo meraviglioso sport è originato, cioè quella letteraria. Prendiamo la recente Strade Bianche: quella che ha realizzato Pogačar è un’azione difficile da commentare dal punto di vista tattico. In quella gara semplicemente non c’è stata gara. Ecco allora che riacquista senso e spazio il racconto letterario, in cui le parole scritte aiutano a inquadrare l’impresa sportiva in una dimensione diversa, più universale. A storicizzarla, se vogliamo. È un lavoro che non facciamo per ogni gara del calendario, intendiamoci, difatti Bidon nel tempo è diventato anche altro, per esempio un podcast sul Giro d’Italia che ormai è una bella consuetudine e un gruppo Telegram particolarmente stimolante».

In un Paese calciocentrico, il cambio di prospettiva può e/o deve partire da chi fa informazione?

«In linea di principio, non sono un sostenitore dell’idea che il ciclismo debba ispirarsi al calcio, che debba puntare a quei numeri e a quel livello di interesse. Nemmeno a quelli del festival di Sanremo, se è per questo, visto il Fantagiro da poco lanciato. Non è un male se il ciclismo resta uno sport da tempi lunghi, riflessivo, non concepito per gli highlights. E se continua a esistere in una dimensione in un certo senso più provinciale, o più avvicinabile dal popolo, come ama dire Geoghegan Hart. Secondo me ha poco senso essere invidiosi della visibilità riservata allo “sport maggiore” o, peggio, risentiti nei confronti degli appassionati di calcio, non foss’altro perché in Italia i maggiori eventi ciclistici sono tuttora visibili in chiaro, ed è una cosa importante. Anche per questo è inconcepibile che non sempre vengano valorizzati a dovere. E dispiace ovviamente per il trattamento riservato al ciclismo dai quotidiani sportivi – soprattutto dalle loro prime pagine – ma non so dire quanto peso residuo abbiano nell’influenzare l’interesse del grande pubblico e degli appassionati, un patrimonio che al ciclismo non è mancato nel suo periodo più buio, figurarsi adesso. Quella in corso è una delle epoche in assoluto più spettacolari della storia del ciclismo, è una miniera di personaggi e imprese, e se chi per mestiere racconta vicende di sport non vuole o non può accorgersene, è un problema soprattutto suo: non sa che si perde».