Vent’anni senza Pantani, Veneziano: «La bici era la creta, lui l’artista»

Pantani
Marco Pantani con il suo meccanico Luigi Veneziano. Nel mezzo il direttore sportivo della Mercatone Uno, Giuseppe Martinelli
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«Mi chiamo Luigi Veneziano e per quattro stagioni, dal 1997 al 2000, sono stato il meccanico della Mercatone Uno di Marco Pantani. Chi era lui per me? Un fratello minore. All’inizio facemmo fatica ad ingranare, a dire la verità più per diffidenza da parte sua: era fatto così, probabilmente aveva avuto dei precedenti infelici. Ma col tempo ci siamo conosciuti, capiti e apprezzati. Tra di noi c’erano confidenza e complicità. Lo andavo a trovare, rimanevo a mangiare con la famiglia (ma solo se m’invitavano, non ho mai approfittato del privilegio d’essergli vicino). A un certo punto eravamo talmente intimi che mi mancavano soltanto le chiavi di casa sua. Era di cuore, umile, timido. Tanto timido, troppo: tant’è che la sua ritrosia veniva scambiata per arroganza. Ma fatemi il piacere, era il primo ad aiutare un amico in caso di bisogno.

«Per lungo tempo ho saputo chi fosse, ma non gli avevo mai rivolto parola. Sentivo parlare di questo scalatore promettente, lo incrociavo alle gare, ricordo che a un Giro di Polonia a cui eravamo presenti entrambi si ritirò dopo un paio di tappe. Un giorno del 1996 mi convocò a Dozza il grande Luciano Pezzi, per me un secondo padre. Avevamo già lavorato insieme. Ricordo, tra l’altro, che mi seguiva quando ero un giovane corridore e lui, invece, già guidava l’ammiraglia della Salvarani. Insomma, Pezzi vide più avanti di tutti. Ho preso Pantani, mi disse. Io all’epoca ero il meccanico della Mapei, andai da Luciano in gran segreto. Ero un po’ scettico, non lo nascondo. In quel momento sfido chiunque a pensare che Pantani potesse vincere Giro e Tour nello stesso anno. Era il Pantani con le stampelle, quello che si era quasi ammazzato alla Milano-Torino. Io c’ero, passai poco dopo l’impatto, la bicicletta era completamente disintegrata.

«La prima volta che strinsi la mano a Pantani fu qualche mese dopo. Io non partecipavo ai ritiri, ma essendo il responsabile meccanico della squadra raggiunsi i corridori a Cecina per un paio di giorni insieme a Pezzi. Quando lo vidi era insieme a Pregnolato, il suo massaggiatore, che poi Luciano avrebbe allontanato. Non credevo ai miei occhi: aveva una bicicletta che dire sporca era poco. Ci si presenta in ritiro così?, gli dissi. Lui ci rimase male. In Carrera non mi hanno mai detto niente, rispose. Io, da meccanico, ero sbalordito. Mi ero illuso d’aver fatto passare il messaggio, poi capii che Pantani era così. Estroso, maniacale, imprevedibile, sensibile, stressante. Sapeva di esserlo, ma non poteva farci niente. Anzi, devo dire che mi ha sempre trattato bene e anche difeso, se necessario. Quando vinse il Giro, venne organizzata una cena privata in un ristorante di San Siro, dietro l’ippodromo. C’erano tutti: sponsor, corridori, personaggi pubblici, c’era anche Gimondi. Ricordo che Marco, tra un ringraziamento e l’altro, trovò spazio anche per me. Ringrazio Veneziano per avermi sopportato per ventidue giorni, disse al microfono.

«La bicicletta era la sua creta e lui era l’artista. Prendere le misure all’inizio dell’anno non serviva a niente. Qualsiasi sua richiesta era assurda, per me. Ma ero pagato per quello, ormai avevo inquadrato Marco e cercavo di mettermi l’anima in pace. L’inclinazione del telaio, l’altezza della sella, l’altezza del manubrio. M’inventai un attrezzo, che adesso in gruppo hanno tutti, per prendere le misure senza sbagliare: almeno non poteva prendermi in castagna. Era composto da una base, da un’asta che teneva ferma la bicicletta e da un’altra asta millimetrata. Lui diceva di fidarsi, ma poi veniva a controllare. Cambiava l’altezza del manubrio in gara, non so se mi spiego. Cambiò le misure anche nell’estate del 1998, tra Giro e Tour. Sentiva tutto, di dirgli una cosa per un’altra ti passava la voglia in partenza, tanto se ne sarebbe accorto. A un mio amico tornitore feci preparare degli spessori che andavano dal millimetro al centimetro: me li portavo dietro, non si poteva mai sapere. Sempre in corsa cambiava anche le tacchette. Una volta, questa è buffa, ci fermiamo in gara al Catalunya proprio per questo motivo. Mi sembra ieri: lui a sedere al mio posto col cacciavite e una scarpetta, io in piedi a lavorare all’altra. E quelli del camion-scopa: ha finito? si ritira? Ci scappò da ridere.

«Pantani era un fenomeno, cosa vuoi che ti dica. Era uno scalatore devastante in un’era fatta perlopiù di passisti-scalatori: Indurain, Ullrich, Zülle. Ricordo un anno, forse era il 1999, l’ammirazione e la rassegnazione di Salutini. Eravamo in Spagna, la stagione doveva ancora entrare nel vivo. Senza molto allenamento, Marco staccò tutti nella tappa di montagna e vinse la classifica generale. Ma noi cosa ci alleniamo a fare, diceva Salutini, se tanto arriva questo che al massimo ha pedalato e ci rifila questi distacchi. Pantani conosceva se stesso come un contadino la sua terra. Mai usato il cardiofrequenzimetro, il contachilometri soltanto per una questione di sponsor, ma appena poteva buttava via tutto. Vado a sensazione, mi spiegava, e a me bastava, non chiedevo altro. Il 1999 fu anche l’anno in cui rischiò di vincere la Sanremo, no? Il giorno prima mi chiese: hai dietro un 44? Certo, gli risposi. Bene, così domani levo tutte le musiche e ne metto uno per cantone. Se non gli fosse andato dietro Bartoli l’avrebbero rivisto dopo il traguardo.

«Il Pantani più forte che abbia mai visto è quello dell’Alpe d’Huez, 1997. Non pensavo che un uomo potesse andar tanto forte in salita. Ricordo che fuori dall’albergo c’era uno dei suoi fan club, iniziarono a cantare Romagna Mia. Lui tornò, li ringraziò, e poi venne a salutare anche me, come faceva sempre. Certo, non andò piano nemmeno ad Oropa, al Giro del 1999. Arrivo in ammiraglia al traguardo e dal pubblico mi giungono frasi strane: meccanico, la catena. Noi non avevamo certezze, nemmeno Marco esultò proprio perché non era convinto d’aver ripreso tutti. Insomma, in albergo controllo la sua bicicletta e mi rendo conto che la catena era rimasta incastrata e si era piegata per quattro o cinque centimetri. Ma come aveva fatto a riprendere tutti e a vincere? Nessuno è paragonabile a Pantani. Nemmeno Van der Poel, che a me piace. Nemmeno Pogacar, che invece non mi sa di nulla. Certo, sono fortissimi, possono vincere cinque Sanremo e dieci Tour de France. Ma non sono dei personaggi. Sono dei bravissimi ragazzi e degli atleti impeccabili che pensano sempre al ciclismo. Non c’è estro, non c’è fantasia, non c’è epica. Pantani era come Tomba, come Valentino, talmente riconoscibile che non c’è nemmeno bisogno di specificare Rossi: li conoscono tutti, sono delle leggende, travalicano il loro sport, arrivano ai bambini e agli anziani.

«Ti racconto questa. Tour de France del 1998. Arriviamo a Dublino, io come sempre a trafficare con le biciclette. Vigilia della prima tappa, il cronoprologo. Guarda che adesso scende Pantani, mi dicono, vuole riscaldarsi. Di biciclette da cronometro ne aveva un paio. Quale vuoi?, gli chiedo. Una vale l’altra, mi risponde scocciato, tanto torno subito a casa. Ascolta, gli dico, quindi tutti noi ci siamo fatti migliaia di chilometri per niente? Nella tappa del Galibier, quando prese la maglia gialla, ne successero di tutti i colori. Lui correva con questi tubolari gialli da 18. Io non li potevo vedere e glieli volevo cambiare. Quella mattina io faccio su e giù dal camper con la scusa del caffè, in realtà volevo vedere cosa potevo prendere per sostituirglieli. Una volta, due volte, tre volte. Alla quarta, secco: Venezia, lascia tutto com’è, non toccare nulla. Incassai. Io gli cambiavo le gomme tutti i giorni, anche se non ce n’era bisogno. Lui una volta si era arrabbiato: se in questa squadra mancano i soldi per le gomme allora me le compro da solo, sbottò un giorno. Per non sentir discorsi gliele cambiavo dopo ogni tappa, vai a sapere te quante ne avrò consumate quell’anno.

«Tutti si ricordano di Maini che passa la mantellina a Pantani in cima al Galibier, ma quello che scese dalla macchina e lo aiutò ad infilarsela dopo una o due curve della discesa ero io. Una giornata infame. Ad un certo punto si accostò l’ammiraglia della Kelme, mi pare che avessero Escartin davanti. A Martinelli propongono il più classico dei patti: a noi la tappa, a voi il Tour. D’accordo, accettò convinto Martinelli. Io nella mia testa pensavo: d’accordo un corno, adesso devi spiegarlo a Marco. E infatti, una botta secca e chi s’è visto s’è visto. All’arrivo festa grande nonostante il maltempo, l’aria odora d’impresa. Io faccio le mie cose e Marco le sue: le premiazioni, le interviste, il protocollo. La sera, appena mi vide, mi fece: hai visto che si può ribaltare un Tour de France anche coi copertoni gialli?

«Il giorno più triste, va da sé, fu Campiglio. Lo fecero fuori, nessuno me lo leva dalla testa. Ci hanno cancellato con un colpo di spugna, ricordo d’aver dichiarato a qualche giornalista. Quella mattina volevo salire in camera di Marco per chiedergli cos’era successo. Ad ogni uscita dell’albergo c’erano i carabinieri. In camera sua trovo Velo, Podenzana e forse Fontanelli, abbi pazienza ma son passati venticinque anni. Pantani era a sedere, di spalle: guardava fuori dalla finestra. Non volava una mosca. Lui aveva rotto un vetro con un cazzotto e si era tagliato. L’anno dopo soffriva Garzelli in maglia rosa. Gli sponsor volevano che a vincere fosse lui, ma ormai la gara era andata diversamente. Una mattina, mentre sistemo le biciclette in partenza, mi rendo conto che lui mi guarda di taglio dal finestrino del camper: mi sta controllando, vuole vedere se dedico più attenzioni alla sua bici o a quella di Garzelli. Un’altra volta, in albergo, viene giù e mi dice: oggi abbiamo cambiato bici, ma la seconda che mi hai dato era diversa. Impossibile, penso e rispondo io. Gli dimostro che avevo ragione, lui capisce ma non si perde in complimenti, non era il tipo. Qualche ora dopo decido di affrontarlo. Salgo in camera e gli dico: se per qualsiasi motivo non credi più in me dimmelo e amici come prima, io non ho problemi a scendere dal tuo carro, ho una vita. Mi disse delle belle parole, ci chiarimmo e finì lì. Ma alla festa finale, dopo il trionfo di Garzelli, Pantani non era il solito. Bevve un bicchiere e via, si trattenne poco. Evidentemente aveva immaginato un altro epilogo.

«Che la sua situazione non fosse idilliaca si sapeva, il problema era trovarlo. Spariva, non rispondeva, non lasciava detto niente a nessuno. L’ultima volta che ci parlai fu al telefono. Senza nessuna speranza provai a chiamarlo, avevo delle foto da fargli firmare per conto di un amico. Mi rispose, ma la batteria del mio cellulare si scaricò proprio in quel momento. Ero al lavoro, mi venne in soccorso un collega e lo richiamai. Mi pare fosse in giro col camper. Ma appena torno ci vediamo per una piadina e ti firmo tutto, mi promise. Non l’ho più sentito né visto. Nemmeno da morto, perché al funerale non andai. Alla televisione avevo sentito dei discorsi che non mi stavano bene, mi sentivo nauseato arrabbiato triste svuotato. In chiesa, nelle prime file, c’erano quelli che di Pantani avevano detto peste e corna. Il celebre urlo della Tonina, la mamma di Marco: tutti fuori. Aveva ragione da vendere. Troppi squali, troppi approfittatori. Pantani tira, vende, attrae. Avevamo in comune la passione per le moto. Mi voleva per forza far regalare una Ducati dalla ditta. Non c’è bisogno, gli dissi cento volte. E lui insisteva. Per farlo chetare andai al concessionario e me la comprai coi miei soldi, come tutte le persone normali. Pantani, questo va ricordato, in gruppo non era amato. In tanti soffrivano il suo carisma, il suo talento, la sua popolarità. Quando oggi sento tanti suoi ex colleghi che lo osannano mi vengono in mente soltanto parolacce.

«La popolarità non lo aveva cambiato, te lo posso assicurare. Si allenava duramente come prima, aveva ancora passione, con le persone che conosceva era rimasto semplice e disponibile. Un giorno Martinelli mi chiede di portare Marco a Bologna per girare alcuni spot della Mercatone Uno. Arrivo fuori casa sua e c’erano i soliti tifosi. Mi aprono il cancello di dietro, quello della piscina, e io entro. Come sempre butto giù i sedili posteriori e stendo la coperta. Marco non c’è, rispondo ai tifosi che mi chiedono dove sia. Dopo due o tre chilometri gli dico: puoi uscire da lì sotto. Non ti dico in autostrada: vedevano l’ammiraglia della Mercatone Uno e si lanciavano in sorpassi, in clacsonate, si sbracciavano fuori dai finestrini. E Marco, docile, che contraccambiava. Al ritorno, appena usciti dal casello, mi chiede di fermarmi: aveva visto un suo amico poliziotto in servizio. Dopo due minuti di numero, ci rendiamo conto d’aver completamente bloccato lo svincolo: incuriositi dall’ammiraglia, tutti gli automobilisti che uscivano dall’autostrada si erano fermati intorno a noi. Destino volle che quella sera c’era una partita di Coppa Italia, mi pare Ravenna-Juventus. Ci chiesero di ripartire e andar via, nel tappo c’erano rimasti anche i mezzi della Juventus. Poi venni a sapere che quel pomeriggio, per colpa di Pantani che si era fermato a salutare un amico poliziotto appena fuori dall’autostrada, rimase imbottigliato nel traffico con la sua scorta anche il presidente della Juventus, l’Avvocato, Gianni Agnelli».