La nostra inchiesta: dalle app sul cibo ai milioni degli sponsor, viaggio nei superteam stranieri

Ineos-Grenadeirs
La Ineos-Grenadeirs schierata in blocco al Tour of the Alps (foto: Vaishar)
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Sono davvero più forti di noi? Oppure sono solo più ricchi? Sono loro il ciclismo del futuro? Ecco le domande che tutti si pongono in questo momento, assistendo al dominio di questi “dream team” a cui non mancano né i soldi né tantomeno le competenze. Bicisport vuol vedere e capire e per farlo ha interpellato prima il diesse della Ineos Grenadiers Matteo Tosatto e poi il corridore della Jumbo-Visma Edoardo Affini


In principio fu il Team Sky a ridefinire il cielo sopra il ciclismo. Vennero, videro e vinsero. Con metodo, si capisce. Il primo comandamento era tutto sommato abbastanza semplice, e avrebbe successo anche oggi se replicato: investire molti soldi.
Nato dal nulla nell’anno di grazia 2010, in un paese che non aveva una storia nel ciclismo su strada come la Gran Bretagna, il Team Sky aveva una missione dichiarata: quella di portare un corridore britannico a vincere la corsa a tappe più prestigiosa e famosa del mondo, il Tour de France.
Il muro ci mise due anni e qualche delusione a cadere: la vittoria di Bradley Wiggins nel 2012 era destinata ad aprire una strada feconda. Dopo Wiggo arrivarono Chris Froome – quattro successi – e poi Geraint Thomas. Il progetto del primo Tour vinto da un britannico si era moltiplicato portandone sei in sette anni. A cui vanno aggiunti la Vuelta 2017 e il Giro 2018, dovuto sempre a Froome. L’anno dell’apoteosi fu proprio il 2018, quando i corridori del Team Sky vinsero tutti e tre i grandi Giri, nell’ordine Froome, Thomas e Simon Yates.
Ma proprio alla fine di quella stagione fu annunciato l’addio di Sky: motivi economico-finanziari che passavano decisamente al di sopra del piccolo mondo non più antico del ciclismo. Era stato il team britannico ad accompagnare l’ingresso di questo sport nel futuro: un futuro fatto di iperspecializzazione, divisione rigida dei compiti, condivisione delle conoscenze, ricerca del talento e cura maniacale dei dettagli.

A ricordarla oggi, fa quasi tenerezza la storia del camper in cui dormiva al Giro 2015 Richie Porte (miglior risultato il terzo posto al Tour 2020) – per sfruttare il vantaggio di non dover cambiare letto ogni sera e sentirsi in qualche modo sempre a casa – con i direttori sportivi del team che ci portavano in pellegrinaggio sul mezzo, e ci facevano disinfettare le mani con l’amuchina perché non portassimo virus. Allora sembrava una stranezza, poi sarebbe arrivata la pandemia e avremmo scoperto a nostre spese che anche lavarsi le mani con cura può salvarti la vita, o magari una stagione.

Erano anche quelli marginal gains: se non ti viene il raffreddore (o, peggio, l’influenza) non perdi giorni di allenamento o di gara. Piccoli guadagni potevano arrivare da qualsiasi dettaglio: un quarto d’ora in meno di sonno, un piatto di pasta consumato in macchina scendendo da una montagna, un calzino più performante, un casco più aerodinamico, la giusta pressione dei tubolari. È la somma di tutti quei piccoli vantaggi che fa un successo.

Il Team Sky diventa un laboratorio, e i corridori fanno da cavie: si lavora soprattutto sui difetti, sulle mancanze, su quello che ancora non si conosce. Il sonno diventa un punto chiave, nei grandi Giri il recupero è fondamentale e dormire bene è decisivo. Sky comincia a dividere in due lo staff: una parte degli uomini anticipa il gruppo squadra di un giorno in modo da allestire perfettamente le camere dei corridori, che avranno sempre il loro materasso e il loro cuscino, ogni sera. Da allora quasi tutti i team del World Tour hanno gli addetti del giorno prima. Anche i rulli dopo la tappa sono un’invenzione del Team Sky. In principio sembravano marziani, cinque anni dopo lo facevano anche tutti gli altri.

Geraint Thomas, che ha 37 anni, ci ha detto di non avere alcuna passione per watt e data. «I giovani sono troppo attaccati ai numeri». Matteo Tosatto ride. «G arriva da un’altra scuola, come me. Prendi la bici, ti alleni, mangi. Ma per ottenere certi risultati anche lui ha dovuto modificare qualcosa. In parte gli do ragione, perché adesso magari arriviamo all’esasperazione. I giovani li vedo molto fragili, a parte quei quattro o cinque che sono fortissimi, e se fanno tutto quello che gli si dice e poi non arrivano risultati rischiano di saltare di testa. A volte è importante anche lasciargli la capacità di sbagliare».

È il lato umano della programmazione totale, non a caso incarnato da un direttore sportivo italiano che elenca tutto quello che di nuovo ha trovato quando è approdato al Team Sky, nel 2017.
«Tanta competenza, test e studi su aerodinamica, alimentazione, vestiario, dal casco ai calzini. L’idea era quella di dare importanza a qualsiasi particolare, massima concentrazione su tutto. Ora sono tante le squadre che non lasciano nulla al caso, e la ricerca si è evoluta in tutti gli sport professionali».

Le differenze scavavano abissi. «Prima in galleria del vento si andava magari una volta l’anno con lo specialista delle crono. Qui ci si va più volte con più corridori, così come si va a provare in pista. E ha un costo alto. L’alimentazione si è evoluta in base a quello che consuma il corridore in corsa, è quello ti fa fare salto di qualità, ma ormai è la base: senza non hai alto rendimento, soprattutto adesso che le corse esplodono a 100 chilometri dal traguardo, e non hai tempo di mangiare o di recuperare».

Lo staff di Ineos è composto da più di 100 persone: soltanto al Giro sono 45, 20 in più di quelli ospitati dall’organizzazione. E camere singole per tutti: altro costo extra. Ci sono un capo performance e 6 coach, 2 specifici per la crono. Dan Bigham non sovrintende solo le cronometro ma anche i materiali. «Lo spessore dei copertoni è cambiato: una volta si correva coi 21, adesso coi 28, dicono che sono più veloci. Magari si usa un 25 davanti e un 28 dietro. Idem l’atmosfera nelle gomme: una volta più pompavi e più andavi veloce, adesso dicono l’esatto contrario. E poi non usi più i tubolari, usi i tubeless. Ho sentito quello che ha detto Nibali, ma Vincenzo è della vecchia scuola: i tubeless sono più veloci. Quanto alla sicurezza, anche i tubolari al Tour con 40 gradi sono usciti dal cerchio. Bisogna testare tutto e poi scegliere».

Finita l’era Sky, Ineos non ha ancora saputo ripetere quell’exploit. Con il nuovo corso sono arrivati 3 grandi Giri in 4 anni (il Tour 2019 e il Giro 2021 con Egan Bernal, e il Giro 2020 con Tao Geoghegan Hart), ma soprattutto sono arrivati altri squadroni competitivi in quanto a marginal gains. Su tutti la Jumbo-Visma.

È stato Richard Plugge nel 2014 a stringere una partnership con una squadra di pattinaggio, la BrandLoyalty. Il primo anno – col nome Team LottoNL-Jumbo – lottavano per rimanere a galla. Nel 2015 si sono seduti a un tavolo e hanno disegnato (letteralmente: su alcune lavagne) un progetto vincente. Merijn Zeeman la chiama visione a lungo termine. «Abbiamo scelto di investire nello sviluppo di talenti, materiali, manodopera, conoscenze, competenze e nutrizione, tra le altre cose. Non dall’oggi al domani, ovviamente».

Dopo che Lotto ha deciso di interrompere la sponsorizzazione, Visma è entrata come sponsor principale. Plugge vede gli sponsor come la base essenziale per il successo finale della squadra. «Grazie a Jumbo Supermarkets abbiamo potuto gettare le basi. Era il 2016 e con l’arrivo di Visma nell’inverno del 2018, abbiamo potuto accelerare ulteriormente. Da quegli anni abbiamo formulato il sogno. Quello è stato il momento in cui ci siamo detti: vogliamo vincere il Tour». È sempre quello l’obiettivo finale, il grande sogno di chi vuole costruire ciclismo. La Jumbo-Visma ha tagliato il traguardo nel luglio scorso, con la vittoria di Jonas Vingegaard, che è appena stato ripagato con un prolungamento del contratto fino al 2027. Visione a lungo termine, ancora. Nel 2022 la Jumbo-Visma è stata il miglior team al mondo, al primo posto nella classifica UCI con 48 gare vinte dalla squadra maschile. Oltre a Jumbo e Visma, anche Cervélo, Campina e HEMA, tra gli altri, si sono impegnati per un periodo di tempo più lungo.

E neanche l’annunciato disimpegno della catena di supermarket Jumbo per la fine del 2024 fa paura. È infatti appena entrata Coinmerce, azienda di bitcoin e criptovalute di Aalsmeer che sarà partner della squadra di ciclismo e di quella di pattinaggio. Parte dell’importo dello sponsor viene pagato in bitcoin e quindi dipende dal prezzo della criptovaluta.

Edoardo Affini, 26 anni, è arrivato nel team olandese tre anni fa e ricorda esattamente quello che ha trovato. «Sicuramente una grande organizzazione in tutti gli aspetti, dall’allenamento alla nutrizione, quelli più facili da vedere, e tutto quello che c’è dietro: uffici, parte legale, finanziaria, marketing». La parola chiave è condivisione. «Siamo 4 squadre – donne, uomini, development e pattinaggio – e ci lega un filo conduttore, condividiamo perfino i programmi di allenamento anche se poi ogni squadra ha un suo organico che a sua volta si divide per ogni corridore. Il mio preparatore, Mathieu Heijboer, è anche l’head coach e oltre a me segue altri sei corridori, ma è in contatto costante con tutti gli altri. Per i test sui materiali ci appoggiamo all’università e alla galleria del vento di Eindhoven».

Se dovesse dire la prima grande differenza con l’Italia – budget a parte – Edoardo parlerebbe di alimentazione. «Da quest’anno abbiamo l’applicazione Foodcoach, che fa una bella differenza. Una filosofia molto diversa dall’idea vecchiotta che c’era in Italia, quella che demonizza i carboidrati, che ti impone di mangiare poco: si è ormai capito che se non butti dentro benzina la macchina non va». Fino a pochi anni fa, il team calcolava manualmente il fabbisogno energetico per ciclista e poi adattava i pasti di conseguenza. Ma ci voleva molto tempo, per cui si faceva solo per le gare importanti. Con l’app Jumbo Foodcoach ogni pasto viene adattato alla salute, alle prestazioni e al recupero, fino all’ultimo grammo per ciclista. Gli chef ricevono l’input e si mettono al lavoro per preparare pasti che piacciono e soddisfano i fabbisogni nutrizionali dei corridori.

Altra leggenda da sfatare: i vecchi direttori sportivi che ti dicevano di tenere le gambe alte. Poi abbiamo visto Van Aert andare a correre a piedi la mattina prima delle tappe del Tour. Affini ride. «Sono sempre andato a correre anch’io già prima di venire qua, specialmente nella pausa invernale. Quando sono arrivato in Olanda erano contenti di sapere che correvo a piedi, mi hanno incoraggiato, hanno rincarato la dose, e adesso lo utilizzo anche come allenamento. Ovviamente non va bene per tutti, ma per me sì».

Ai corridori vengono chiesti feedback continui sui materiali, i vari brand sono in competizione fra loro per migliorarsi continuamente. Si condividono le conoscenze e si cercano sempre nuovi talenti. Con due basi indispensabili: gli sponsor e una cultura della bicicletta che rende tutto più facile. Addirittura naturale.