Al Piva sboccia Villa: «Adesso credo nei miei mezzi. La Liegi? Se Amadori mi vuole, io ci sono»

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Giacomo Villa della Biesse-Carrera festeggia la vittoria del Trofeo Piva (foto: Rodella)
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Guardando al corridore che sta diventando e alla bella affermazione colta ieri al Trofeo Piva, da adesso in avanti Giacomo Villa è autorizzato a guardare con rammarico al biennio trascorso tra gli juniores (ma lo faccia il meno possibile, i rimpianti non servono a niente, è sentirsi forte e intelligente fuori tempo massimo).

«Il mio pregio e il mio difetto combaciano: sono troppo buono e troppo umile – spiega Villa – Non riesco a dire di no quando mi viene chiesto di aiutare un compagno di squadra. Però, dallo scorso anno, le cose sono cambiate. Sono sempre Giacomo, ma ho capito quanto valgo. Non pretendo, ma so quanto posso dare. Da juniores avrei aiutato e basta, adesso mi piace avere le mie chance. Il difetto l’ho limato, diciamo così. Ora m’è rimasto l’altro: la testardaggine. Faccio fatica ad ascoltare i consigli degli altri, ma se voglio andare avanti mi sa che devo cambiare io».

Villa, intanto ieri hai conquistato la tua seconda bella classica dopo San Daniele dello scorso ottobre.

«Nella riunione della mattina era stato deciso che i capitani saremmo stati io e Foldager, ma i gemelli Galimberti e Arrighetti non sarebbero stati unicamente al nostro servizio: sono ragazzi forti, avevano il compito di entrare nelle prime fughe più numerose e di muoversi in prima persona nel finale se la corsa si fosse messa in un certo modo».

Invece la gara si è messa nel modo più facilmente pronosticabile: hanno attaccato i migliori.

«Sì, prima una caduta e poi il ritardo dai fuggitivi che aumentava hanno dato la sveglia definitiva al gruppo. Quando ho visto muoversi i vari Martinelli, De Pretto e Buratti mi sono detto: sono i nomi buoni e tra quelli devo essere anche io. Così è stato. L’azione giusta è arrivata a circa quindici chilometri dal traguardo, sull’ultimo Combai. Siamo andati via in otto, mi pare. Dopodiché si sono riportati su di noi in sette, quindi all’ultima Riva di San Vigilio eravamo una quindicina».

Lo strappo finale: dallo scollinamento è una breve picchiata verso l’arrivo. E tu non sei transitato davanti.

«Meris, Martinelli e De Pretto avevano preso un leggero vantaggio, che talvolta può anche essere sufficiente per farcela. Ma io non ho tremato, ero a dieci metri di distanza e sapevo che sarei potuto rientrare con una bella discesa. Il finale è stato strano. Zamperini ha tirato dritto portandosi dietro De Pretto, io mi sono infilato alle sue spalle e ho colto l’attimo: c’è stato uno spostamento verso sinistra, io invece sono scattato all’interno e li ho colti di sorpresa».

Successo col brivido: hai alzato le braccia troppo presto e per poco Martinelli non ti beffava.

«E’ vero, ho dovuto tirare qualche pedalata di sicurezza. Il giorno prima avevo visto un video di Van Aert, la sua esultanza al Tour dello scorso anno quando in maglia gialla vinse da solo a Calais, e volevo emularla. Mi è andata bene, ma mi servirà comunque da lezione: non è finita finché non è finita e a crederci fino in fondo non si sbaglia mai, infatti Martinelli stava quasi per battermi».

Questo periodo è uno dei più congeniali alle tue caratteristiche: quali obiettivi ti sei posto?

«L’obiettivo è sempre quello: vincere. Sicuramente parteciperò al Belvedere e al Recioto, poi resta da capire dove correrò il fine settimana successivo: se Amadori mi convoca per la Liegi, il 15 aprile sarò in Belgio; altrimenti, il giorno dopo c’è San Vendemiano. Certo che gareggiare all’estero non mi dispiacerebbe».

Perché? Davvero in Italia certe cose non si possono imparare?

«Non sempre, si capisce, ma tendenzialmente nell’Europa del Nord il livello è più alto rispetto a quello che si può trovare in Italia. E poi non si tratta soltanto delle corse in sé, ne parlavo proprio con Amadori nel ritiro pugliese di qualche settimana fa. E’ una questione di opportunità: dato che le development delle World Tour gareggiano perlopiù lassù, è più facile incontrare i team manager e i direttori sportivi delle grandi squadre in Belgio piuttosto che in Italia».

E’ vero che ti piacerebbe misurarti nella classifica generale di qualche breve corsa a tappe?

«E’ un’idea su cui stiamo lavorando insieme a Milesi e a Nicoletti. Però, per come la penso io, sarebbe sbagliato decidere a priori. Io non nasco come corridore da classifica generale, quindi credo che convenga vedere via via il percorso delle gare e la mia condizione. Ho le qualità per inseguire i successi di giornata, sarebbe un peccato buttare via troppe occasioni per un piazzamento che non darebbe nulla a nessuno».

Cosa ti manca per competere coi migliori uomini da corse a tappe?

«Probabilmente al loro livello nemmeno ci arriverò mai, siamo realisti. Sono alto 1,82 e peso poco meno di settanta chili, è dura pensare di competere alla pari per una settimana con scalatori puri e talentuosi che magari pesano dieci o quindici chili meno di me e che possono contare su una corazzata al loro servizio, penso al Lenny Martinez della passata stagione. Intanto sono curioso di conoscere il disegno del Giro d’Italia: un piazzamento tra i primi dieci potrebbe essere prestigioso e alla mia portata».