Saronni e la seconda giovinezza di Moser: «Ha vinto grazie alla scienza, è stato una cavia»

Saronni
Giuseppe Saronni e Francesco Moser in ritiro prima dei campionati del mondo 1983 in Svizzera
Tempo di lettura: 5 minuti

Beppe Saronni e Francesco Moser continuano ad affrontarsi a trentacinque anni dalla loro sfida finale, la crono Firenze-Pistoia del 24 ottobre 1987. Saronni ha raccontato a Marco Bonarrigo del Corriere della Sera la loro rivalità partendo da quello che aveva detto al Corriere proprio Moser, e cioè che tra loro era scontro continuo: impossibile andare d’accordo con uno che si sentiva superiore perché veniva dalla città.

«Lui evoca sempre il confronto tra un montanaro trentino con dieci fratelli che zappava la terra e un borghese di Milano. Peccato che io sia cresciuto a Buscate, nella campagna lombarda. Papà Romano era autista di bus di linea, mamma Giuseppina casalinga: eravamo quattro fratelli, si campava con un solo stipendio». Saronni pedalava e lavorava, «tre allenamenti a settimana, tre giorni di lavoro in fabbrica alla Olivetti e poi la gara alla domenica. Aggiustavo macchine da scrivere e imparavo a montare e smontare le Logos, le calcolatrici da cui vennero sviluppati i primi computer».

Il racconto di Saronni, che cominciò ad andare in bici «per via di mio nonno materno Tito Brambilla, classe 1897, gregario di Libero Ferrario, il primo italiano a diventare campione del Mondo nel 1923 a Zurigo, ai tempi eroici di Binda e Guerra» restituisce un ciclismo «ruspante e favoloso. Un gruppo di industriali italiani investiva su squadre e corridori contendendoseli a suon di milioni: c’erano i Del Tongo dei mobili, il Teofilo Sanson dei gelati, i Bagnoli della Sammontana, i Fornari della Scic Cucine, Belloni della Termozeta e Rancilio delle macchine da caffè. Erano appassionati, entusiasti e competenti, sempre presenti alle corse. Oggi le squadre, nel ciclismo come nel calcio, sono proprietà di fondi di investimento. I costi del ciclismo si sono gonfiati. Dai piccoli industriali appassionati si è passati ai gruppi assicurativi e automobilistici e adesso addirittura agli Stati sovrani come Bahrain ed Emirati Arabi. Per allestire una squadra di alto livello servono almeno trenta milioni a stagione, in Italia si fatica a trovarne tre».

Ma dopo tanti anni perché ancora Saronni-Moser, anzi Saronni contro Moser, o meglio Moser contro Saronni? «Ho sei anni meno di lui, sono arrivato nel professionismo quando Francesco era un Dio acclamato dalle folle e dai giornalisti. Il ciclismo era lui. Ho cominciato a batterlo presto e in più avevo la battuta pronta e la lingua affilata, al contrario di Moser, goffo e lento nell’esprimersi. Nel confronto televisivo perdeva sempre e non gli è mai andato giù. Dovrebbe farsene una ragione».

Moser ha detto che «Saronni ha avuto solo tre o quattro anni forti, forse troppo per il suo fisico. Infatti d’un tratto ha smesso. Io nel 1984 a Città del Messico feci il Record dell’Ora e vinsi Milano-Sanremo e Giro d’Italia». La risposta di Saronni è tagliente come sempre e sparata come la fucilata di Goodwood, la sua vittoria mondiale. «A dire il vero io ho vinto venti corse l’anno per sei stagioni di fila, non tre o quattro. E preferirei non parlare della famosa seconda giovinezza di Moser… A fine carriera Francesco è stato il primo e in quel momento l’unico a far ricorso a una certa scienza, di cui disponeva in modo esclusivo. La bici con cui ha battuto il Record dell’Ora era un siluro che pochi anni dopo venne vietato perché dava vantaggi enormi. Per tacere del resto».

Saronni si riferisce a pratiche mediche come la trasfusione di sangue che oggi sono doping, all’epoca erano consentite. «Sì, lo so. Ma ha sfruttato certe metodologie che il famoso professor Conconi offriva solo a lui: io e gli altri i suoi vantaggi li abbiamo subiti. Nel 1983 quando vinsi il Giro mi disse che era troppo vecchio e si sarebbe ritirato. Poi ha accettato il progetto del Record con innovazioni che non si sono rivelate sempre positive. Sulla base di alcune di quelle innovazioni il ciclismo negli anni successivi ha avuto un sacco di problemi. Ma lui non aveva nulla da perdere e le ha sfruttate quando erano legali».

Al Corriere, che gli chiede se potendo avrebbe fatto anche lui le trasfusioni, Saronni risponde così. «Non posso rispondere a posteriori. Oggi potrei dire di no, magari allora avrei detto di sì, ma resta il fatto che lui era l’unico a usufruirne. Moser aveva il monopolio, è stato un po’ una cavia. Io mi sono accontentato di una giovinezza sola dopo aver vinto due Giri d’Italia, un Mondiale, una Sanremo, un Giro di Lombardia e altre 120 corse. E i due Giri li ho vinti con le mie forze». Ecco un altro punto di scontro: il Giro d’Italia. Ancora Saronni sul Giro di Moser. «Ha conquistato quello del 1984, disegnato per lui e dove la tappa dello Stelvio che gli sarebbe stata fatale venne cancellata per presunto maltempo. Superò il povero Fignon nella cronometro finale con una bici a ruote lenticolari che nessun’altro poteva permettersi. È stato bravo, ma queste cose vanno dette».

Ma non è ancora finita. Saronni parla anche dei tifosi di Moser «che in salita organizzavano catene umane per spingerlo quando arrancava e la notte si mettevano a fare schiamazzi sotto le camere d’albergo dove dormivo per non farmi dormire. Nemmeno oggi, a 40 anni di distanza, Moser ammetta quanto io venissi molestato dai suoi tifosi e in che modo scorretto lo aiutavano. Ogni volta cambia discorso». E del carattere del suo rivale. «Ci beccavamo su tutto. Moser aveva un carattere impossibile anche con i suoi gregari che ancora adesso sono troppo educati per raccontare quanto venivano sfruttati e bastonati se non si sfiancavano per lui. Ma la gratitudine non è mai stata il suo forte».

Saronni racconta del mondiale vinto da Moser a San Cristobal, in Venezuela, nel 1977. «In quella corsa io che ero passato professionista da poco mi sacrificai per lui, come mi aveva chiesto il grande Alfredo Martini che dirigeva la nazionale. Pochi giorni dopo, al Giro del Lazio, eravamo in fuga io, lui e Felice Gimondi. Pensate mi abbia ricambiato il favore? No, pensò solo a vincere». Saronni dice al Corriere che con Moser si sentono spesso. «Parla sempre solo lui, però: quando parte con i suoi discorsi è difficile interromperlo e comunque rischieremmo di litigare. Ci vediamo alle cerimonie e io compro regolarmente il suo vino che è davvero buono. Non guardo mai le fatture, ma non credo mi faccia sconti nemmeno lì».

Vanno d’accordo solo una cosa, «nel giudicare lo stato del ciclismo italiano, che è davvero critico. Per mille motivi: mancano gli sponsor, mancano i maestri, le strade sono così pericolose che i genitori non mandano i bambini ad allenarsi. E poi conta l’assenza di campioni che ispirino i giovanissimi». Saronni si sofferma sulla Slovenia del suo pupillo Tadej Pogacar. «Due milioni di abitanti, fuoriclasse in tanti sport diversi, dal ciclismo allo sci al calcio al basket, una cultura straordinaria dell’educazione fisica a livello scolastico. I campioni non si costruiscono dal nulla, in Italia siamo messi male a cominciare dalla scuola».

Dunque non avremo mai un nuovo Moser e un nuovo Saronni? «Non credo proprio e di sicuro non esisterà mai più una rivalità del genere. Con tutti i suoi eccessi e con i nostri caratteracci, sono stati anni meravigliosi: decine di migliaia di persone che stavano a bordo strada ad aspettare ore per tifare per te e contro di te, magari litigando tra loro ma innamorati persi dello sport».