Bardelli: «L’abolizione del limite dei rapporti tra gli juniores è una scelta giusta e naturale, ma di poco conto. In Italia abbiamo questioni più grosse a cui pensare»

Bardelli
Andrea Bardelli, diesse del Team Franco Ballerini, fornisce indicazioni ad uno dei suoi ragazzi prima di una gara (foto: Niccolò Lucarini)
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Rivoluzione o naturale evoluzione? Abbiamo posto questa domanda ad Andrea Bardelli, direttore sportivo del Team Franco Ballerini, una delle maggiori squadre della categoria. È uno degli interrogativi più pesanti che saltano in mente ad appassionati e addetti ai lavori dopo il grande annuncio dell’UCI. L’Unione Ciclistica Internazionale ha comunicato infatti che dal 2023 sarà abolito il limite dei rapporti per la categoria Juniores. Alcune nazioni avevano già rimosso negli anni scorsi questa norma, usando quindi rapporti superiori al 52×14 e creando confusione tra le corse nazionali e internazionali.

Un limite derivato da ragionamenti ampi attorno alla corretta crescita psicofisica dei giovani corridori. Temi che ora con il via libera a qualsiasi rapporto tornano inevitabilmente alla ribalta. Una scelta quindi che proviene dall’alto ed è chiaro che l’UCI ritiene questo limite un concetto superato, molto probabilmente in relazione anche ai numerosi passaggi diretti da juniores a professionismo. Ma per comprendere meglio il significato di questa decisione e per discutere degli spunti che ne derivano apriamo il dibattito con Andrea Bardelli.

Bardelli, cosa ne pensi di questa scelta dell’UCI?

«I miei corridori sono tanti anni che corrono spesso all’estero e in Francia, per esempio, sono già dieci anni che esiste la limitazione dei rapporti. Il ciclismo è cambiato e avendo allenato ragazzi che sono passati direttamente professionisti nel World Tour, come Martin Svrček o Andrii Ponomar, ho vissuto in prima persona questo cambiamento. Quindi sono favorevole, la vedo una scelta per portarsi al passo con i tempi e cambierà poco nella preparazione. I grossi rapporti per me verranno usati solo nelle volate e in discesa».

Dunque una decisione naturale che influirà poco negli allenamenti e nelle gare?

«Sì, avendo vissuto esperienze all’estero credo che l’abolizione del limite dei rapporti non rechi grossi cambiamenti. Nemmeno nella crescita dei ragazzi, perché se ci sono corridori già pronti è giusto non limitarli nello sviluppo. Poi certamente è bene andare più cauti con coloro che hanno bisogno di più tempo e qui entra in gioco tutta l’importanza dei diesse. Poi visto che si parla spesso del fatto di non avere grandi talenti in Italia, questa svolta dettata dall’UCI può essere l’occasione per cambiare qualcosa. Ovviamente non limitare i rapporti non vuol dire che tutti diventano dei campioni, ma può essere un buon punto di partenza per provare a fare meglio. E poi tornando alla scelta dell’UCI in sé, secondo me ci sono anche altri motivi per cui è stata fatta, oltre all’evoluzione naturale del ciclismo…».

Quali?

«Credo che alla base della decisione ci sia anche un problema delle aziende che producono il materiale. Ormai si va nella direzione delle dodici velocità, che permettono di ridurre il numero di cassette pignoni sul mercato, ovvero quelle che vanno montate a seconda del tipo di percorso da affrontare».

Andrea, i tuoi ragazzi cosa ne pensano?

«Li ho sentiti subito dopo che mi hai chiesto l’intervista e sono tranquilli. Mi hanno riferito che anche secondo loro non ci saranno grossi cambiamenti, perché già in passato gareggiando all’estero senza limitazione dei rapporti non hanno notato differenze e nessuno è uscito “massacrato”. Proprio per questo io mi auguro la Federazione accetti questa decisione e si uniformi, perché l’ultima parola spetta a loro».

Rifiutarla per te vorrebbe dire restare indietro ed essere ancor meno competitivi, vero?

«Sì, io non la considero proprio una rivoluzione. È un passo che tanti altri hanno già fatto per lavorare al meglio sui giovani talenti. E non credo nemmeno che rappresenti un problema, quando invece vedo juniores di altre squadre fare allenamenti di 200 chilometri con 3000 metri di dislivello. Un’esasperazione per me, ma ognuno lavora come meglio crede. L’abolizione del limite dei rapporti è l’ennesimo segno che il ciclismo è cambiato, come del resto anche gli altri sport. E come si fa a dire che è un problema, quando sono stati già fatti passi rivoluzionari come le due settimane di ritiro a dicembre, gli infiniti test o addirittura i ragazzi che vengono presi dai procuratori».

 
 
 
 
 
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E proprio in relazione a queste visioni opposte e al ciclismo che si evolve, secondo Andrea Bardelli qual è lo scopo della categoria Juniores al giorno d’oggi?

«Al di là dei diversi punti di vista, credo che tutti vogliamo il bene dei ragazzi, anche se non ti nego che a volte mi sorge qualche dubbio. In Italia il 98% di noi diesse di formazioni Juniores svolge quest’attività per passione e non ne traiamo benefici economici, a differenza delle altre nazioni dove lo fanno per lavoro e corrisponde alla nostra categoria Under 23. Per questo il mio scopo è di tirare fuori il meglio da ogni ragazzo, ma non parlo dei risultati. Ognuno deve provare a esprimere nel miglior modo possibile le proprie potenzialità, ovviamente diverse da quelle di altri corridori. I test che facciamo in laboratorio parlano chiaro e in base a quelli stabiliamo un programma d’allenamento».

A proposito di allenamenti. Nella preparazione qual è il limite da rispettare, tra ragazzi già pronti fisicamente e altri ancora acerbi?

«Il limite viene fuori da solo una volta conosciuto il motore del corridore in questione, fissando un punto massimo che può comunque variare in base alla crescita. Come è naturale che poi si lavori su strade diverse, in base alle caratteristiche di ognuno. Ma questo è un discorso a livello fisico, che è solo uno degli aspetti sul quale lavoriamo. Nella categoria Juniores si deve insegnare tanto ai ragazzi, dalla mentalità all’approccio alla gara, dall’organizzazione all’attrezzatura. I successi, se devono arrivare, arrivano di conseguenza ma ripeto che non tutti devono diventare dei campioni. Ed è compito di noi diesse farlo capire a chi non potrà incamminarsi verso il professionismo. Sono le regole dello sport ed è sbagliato illudere o forzare».

Prima accennavi alle differenze tra la gestione della categoria Juniores in Italia e quella all’estero. Cosa cambia principalmente?

«La differenza principale, la quale fa scaturire tutte le altre di cui parlavo prima, è che in Italia ci sono mille juniores (e altrettante gare), invece in Francia ce ne sono trecento o in Belgio duecentocinquanta. Nazioni dove il passaggio a juniores viene consentito solo ai ragazzi con maggiori potenzialità. Ed è qui che secondo me la Federazione deve intervenire, lavorare e riflettere, non sull’abolizione del limite dei rapporti. La nostra struttura, molto ampia, non ci permette di essere al livello delle altre nazioni».