Il percorso del Trofeo Piva era perfetto per un corridore esplosivo e agile come Martin Marcellusi, che da par suo s’è mosso alla perfezione: prima entrando a far parte di un drappello di valore, poi seguendo l’accelerazione di Marco Frigo. Sullo strappo finale non ha tentennato: ha resistito al ritmo imposto dal corridore della Israel Cycling Academy finché non ha trovato il momento giusto per lanciare la propria azione. Frigo, più scalatore ma meno scattista di lui, ha stretto i denti, ma non è bastato. Al traguardo mancava poco più d’un chilometro: ancora lucido, il laziale ha ulteriormente guadagnato, ipotecando così il successo più prestigioso della sua carriera.
«Dovevamo assolutamente riscattarci dopo due prestazioni non all’altezza come quelle alla Popolarissima e a San Vendemiano. Direi che ci siamo riusciti, andando a conquistare una delle prove internazionali più ambite. Qualcuno sostiene che il livello non era altissimo? Forse, rispetto alle passate edizioni, mancava qualche squadra straniera, ma io cosa posso farci? Io parto sempre per vincere, indipendentemente dagli avversari: i quali, ripeto, erano assolutamente validi».
Allora Martin si può dire che il progetto giovani della Bardiani funziona?
«Sono giudizi che devono dare gli altri, se proprio ne sentono il bisogno. Io posso dire soltanto che mi trovo benissimo. Il gruppo è affiatato, il primo ritiro lo abbiamo fatto ad ottobre dello scorso anno e fin da subito si è instaurata una bella intesa. Tra noi giovani, certo, ma anche coi professionisti: i due gruppi non sono dei compartimenti stagni».
Che rapporto hai con Mirko Rossato, il direttore sportivo che vi segue maggiormente?
«Direi ottimo, il suo modo di lavorare è proprio quello di cui io ho bisogno. E’ comprensivo ma sa essere duro, severo, esigente. E se uno vuol puntare al massimo non può prescindere da questo. In alcuni momenti mi ricorda Balducci, che conosco bene avendolo avuto alla Mastromarco. Comunque abbiamo a che fare anche coi Reverberi, Amoriello e Donati: la squadra è una».
Ecco Martin, probabilmente è per questo che tanti tifosi e addetti ai lavori hanno aspramente criticato il progetto di cui fai parte: a differenza delle development straniere, ben distinte dalle rispettive WorldTour, la Bardiani è un blocco unico.
«Sì, credo che questa sia l’unica distinzione. Per il resto non facciamo niente di diverso dalle continental italiane e dalle formazioni di sviluppo straniere: un’attività dilettantistica di alto profilo affiancata da qualche bella esperienza coi professionisti. Infatti, se devo essere sincero, tutte queste polemiche non le capisco. Le trovo insensate, esagerate, fuori fuoco».
Spiegati meglio.
«Qualcuno dopo il Piva ha detto: non è più una corsa per Under 23. Secondo me è sbagliato reputare me e Frigo due professionisti soltanto perché indossiamo io la maglia della Bardiani e lui quella della Israel Cycling Academy, nemmeno facesse parte della World Tour. Quando io, al debutto tra i dilettanti, vinsi la Firenze-Empoli, arrivai davanti a corridori della Colpack che venivano dal Bessèges. Attiriamo così tante critiche perché ci chiamiamo Bardiani».
Sentite ostilità nei vostri confronti?
«Allora, durante l’inverno ho letto molte interviste e pareri e mi dicevo: chissà cosa ci aspetta non appena ricominciano le gare. E invece, con un pizzico di stupore, mi sono reso conto che non è cambiato molto. Io sono al quarto anno, quindi in gruppo mi conoscono e ho diversi amici, e sono stato accolto bene. Almeno per ora non sento invidia o astio nei nostri confronti. Quello che si dicono i direttori sportivi, invece, non lo so. Io parlo per quello che sento pedalando in gruppo».
Coi professionisti hai avuto l’opportunità di correre alla Milano-Torino, riuscendo anche ad entrare nella fuga di giornata. Un esercizio che sicuramente ti sarà tornato utile per prepararti.
«Innanzitutto entrare nella fuga che ha caratterizzato la classica più antica di tutte è stata una bella soddisfazione. Ci sono rimasto per 150 chilometri circa, praticamente la lunghezza di alcune gare riservate ai dilettanti. A me piace molto di più correre coi professionisti che con gli Under 23: c’è ordine, un filo logico. Non la casualità e l’anarchia che regnano tra i giovani, dove spesso la fortuna rischia di contare più di tutto il resto».
Ma se tutto è già deciso in partenza dove va a finire lo spettacolo?
«Questo è vero, una certa organizzazione può portare a rendere le corse più noiose, specialmente quelle altimetricamente più semplici. Noiose per il pubblico, si capisce. Per noi difficilmente lo sono. Ma l’obiettivo principale di ogni formazione è vincere, non può essere lo spettacolo. Ben venga se c’è e se a regalarlo sono i campioni come Pogacar o van der Poel, ma non credo che si possa incolpare i corridori di puntare al successo senza attaccare a cinquanta chilometri dall’arrivo».
A proposito, quando ti rivedremo nella massima categoria?
«Mercoledì della prossima settimana, il 13: sarò alla Freccia del Brabante. Per il resto correrò perlopiù tra gli Under 23: prima al Belvedere e poi al Liberazione, la classica alla quale tengo più di tutte pur non avendo mai partecipato. Solitamente se la giocano i velocisti, ma il percorso si presta ai colpi di mano. Io, come sempre, parto per vincere e poi la tattica la discuteremo strada facendo. Non è la prima volta che un corridore arriva da solo».
Ti vedremo al Giro d’Italia Under 23?
«Sì, ci sarò e andrò a caccia di tappe. Lo preparerò andando in altura, ma ancora non sappiamo né dove né per quanti giorni. E poi ci sono le gare con la nazionale di Amadori. Per un motivo o per un altro non sono mai riuscito a partecipare ad europei e mondiali, vorrei che questo fosse l’anno buono».














