L’accademia itinerante di Flavio Zappi: «Il mio è un progetto unico e dal 2022 avrò una Continental»

Zappi
Flavio Zappi in una foto d'archivio al Giro d'Italia Under 23 2021
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In principio Flavio Zappi fu corridore professionista: dal 1981 al 1986, 12° alla Sanremo e 18° alla Roubaix nel 1984, una sola vittoria tra i professionisti, una tappa al Giro del Trentino nella stagione del debutto. Poi, appena ventiseienne, il ritiro. Da allora e per diverso tempo, Zappi è scomparso dai radar. Il trasferimento in Inghilterra, dovuto soprattutto a questioni sentimentali, e una quotidianità che col ciclismo non aveva niente a che fare. Quando dieci anni fa è rientrato nel gruppo dei dilettanti, in molti hanno dovuto sforzarsi per ricordarsi chi fosse Flavio Zappi.

Torniamo al 1986, Flavio. Perché decidesti di ritirarti così giovane?

«L’aver conosciuto mia moglie contribuì in maniera sostanziale. Ma a farmi propendere per il ritiro fu l’aria che si cominciava a respirare: troppi rischi, troppi compromessi, troppe pratiche rischiose e soprattutto immorali. Non volevo commettere errori e così ho preferito fermarmi».

Una pausa dal ciclismo che è durata molto tempo.

«Me ne distaccai del tutto, smisi di pedalare e perfino di seguire le corse in televisione. Mi sono riavvicinato soltanto molti anni più tardi, tornando in Italia per il funerale di mio padre. Incontrai amici e conoscenti, anche qualche ex collega. Parlando e ricordando, dentro di me scattò qualcosa. Si vede che era arrivato il momento giusto: stavo proprio pensando di rimettermi in forma e smettere di fumare…»

E poi?

«E poi è successo tutto in fretta. Io in Inghilterra avevo cinque paninoteche, una di queste decisi di farla diventare una sorta di cycling cafè. Esponevo le mie maglie, si parlava di ciclismo, diventò un punto d’incontro per gli appassionati. Diedi vita ad un club, in breve tempo registrai 300 iscritti. L’ideatore di quello che poi sarebbe diventato il “Look mum no hands!”, uno dei cycling cafè più famosi di Londra, prese non poca ispirazione da me».

Il ritorno nel mondo del ciclismo fu traumatico?

«Direi di sì, avevo lasciato uno sport tutto sommato artigianale e ne ritrovai uno estremamente tecnologico. Ne rimasi sconvolto e affascinato. Poi una mattina, mentre pedalavo con alcuni amici inglesi, uno di loro mi disse: sei stato professionista, adesso hai una certa età, lascia perdere tutte queste inutili novità e dedicati ai giovani di questo paese che vogliono diventare dei corridori».

Col senno di poi si direbbe che aveva ragione.

«Ne aveva da vendere, altroché. Sia perché rischiavo di mettermi in ridicolo, sia perché i talenti inglesi hanno davvero bisogno di qualcuno che li aiuti. Di corse ce ne sono poche e i percorsi sono tutti uguali. E infatti i corridori inglesi che vogliono sfondare vanno in Belgio o in Spagna. Magari in tre o quattro, così dividono le spese».

Circa dieci anni fa, quindi, inizia la tua avventura nel ciclismo dilettantistico.

«Sì, dopo un periodo iniziale nel quale seguivo diverse categorie alla fine ho deciso di concentrare interamente i miei sforzi sul dilettantismo. E devo dire che qualche soddisfazione me la sono tolta: con me sono cresciuti Knox, Donovan e Quarterman, oggi rispettivamente alla Deceuninck, alla Dsm e alla Trek. E Double, protagonista di una brillante stagione alla Mg K Vis».

Il tuo progetto ha suscitato tante critiche, si dice che i tuoi corridori pagano per correre. Ma non è un po’ troppo riduttivo?

«Certo che lo è. Sei anni fa ho deciso di aprire un’accademia dove insegno tutto quello che credo di sapere sul ciclismo: come si corre, come ci si allena, come si mangia, come ci si riposa. Siccome non sono mai stato bravo ad andare a chiedere i soldi agli sponsor, ho preferito essere chiaro con le famiglie: io garantisco ai loro figli un’attività sana e internazionale, e per far questo servono delle entrate. Praticamente una retta».

Un’idea di ciclismo incompatibile con l’Italia.

«Forse non c’avrei nemmeno provato, magari la Federazione me l’avrebbe impedito. Però voglio precisare una cosa: io guadagno 1.500 euro al mese, non mi arricchisco né m’interessa farlo. Alla fine di agosto compio 61 anni, in più a dicembre è scomparsa mia moglie. Non ho ambizioni né particolari interessi, è un progetto dal quale traggo soltanto molta soddisfazione».

Come si sviluppa una vostra stagione?

«Praticamente siamo quasi sempre all’estero, ovvero lontani dall’Inghilterra. A inizio anno in Spagna, perché il clima è mite, e poi in Italia. Spesso in Emilia-Romagna, la regione di origine dei miei genitori, alla quale sono molto legato. Affittiamo degli appartamenti e viviamo insieme. I ragazzi cucinano, spolverano, lavano i panni, fanno spesa. La retta da pagare non è irrisoria, ma io garantisco alle famiglie una presenza costante e un calendario di alto livello».

Adesso dove siete?

«A Borello, a due passi da Cesena. Eravamo a Cesenatico, ma nell’alta stagione è una zona troppo cara. Comunque a Borello stiamo benissimo: tantissimi appassionati di ciclismo nonostante sia soltanto una frazione, accanto a noi la signora che vende frutta e verdura ogni sera ci dà tutto quello che altrimenti le andrebbe a male. Cosa desiderare di più?»

Un’esperienza comunque formativa anche se poi soltanto pochi giovani riescono a passare professionisti.

«E’ proprio quello che m’interessa, far capire loro che non tutti diventeranno dei professionisti e che questa esperienza sarà comunque fondamentale per il prosieguo della loro esistenza. Altrimenti, se si pensa soltanto agli sponsor, ai risultati e al tornaconto, è inutile raccontarci che il ciclismo è una scuola di vita».

Al Giro d’Italia Under 23 girava una voce: che Zappi dal prossimo anno vorrebbe allestire una continental. E’ vero?

«Sì, lo confermo, mi piacerebbe avere una ventina di ragazzi da dividere in due gruppi: uno più giovane e acerbo e uno più maturo, la continental appunto. Però faremo il calendario che dico io: voglio farli correre coi professionisti come meritano, non nelle gare di paese».

Una critica alle squadre nostrane?

«A nessuna in particolare, ma a tutte quelle personalità che mettono in piedi una continental senza neanche sapere cosa vogliono inseguire e di cosa si tratta. Il calendario dev’essere importante durante tutto l’arco della stagione, non ha senso partecipare al Giro e poi tornare a gareggiare nelle corse nazionali e regionali».

Hai qualche italiano nel mirino?

«Sì, uno juniores estremamente promettente. Con lui ho parlato chiaro: non ti azzardare ad allenarti come un professionista, altrimenti non andiamo d’accordo. Su certe cose non transigo. Come sul doping: io all’inizio controllavo addirittura le borse dei ragazzi, se avessi trovato qualcosa di dubbio non avrei esitato ad allontanarli».

Secondo alcuni addetti ai lavori, il dilettantismo non è più una categoria così imprescindibile. C’è molto più fermento tra gli juniores, ad esempio.

«Me ne rendo conto anch’io, ma è una visione superficiale e sbagliata. E purtroppo delle conseguenze ce ne accorgeremo quando sarà troppo difficile tornare indietro. Di talenti cristallini ce ne sono pochi, tutti gli altri hanno bisogno di tempo, fortuna, pazienza e allenamento. Il dilettantismo è la categoria che prepara al professionismo, sarebbe un peccato svuotarla di significato».