Montoli: «Ho sconfitto il tumore e mi ritengo un privilegiato. A chi assomiglio? A Saronni»

Andrea Montoli in allenamento con la maglia celeste della Eolo-Kometa
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Per un periodo, tra l’aprile e il novembre del 2017, Andrea Montoli ha temuto che la sua carriera fosse ormai compromessa: gli venne diagnosticato un linfoma mediastino, praticamente nello spazio tra i due polmoni, e la chemioterapia è stato l’inevitabile passo successivo. Nella sfortuna, a Montoli poteva andare peggio: aveva 15 anni, un’età in cui la percezione di quello che ci succede non è mai netta né precisa. E non sapere, non rendersi pienamente conto, è stata la fortuna di Montoli.

Cosa ricordi di quel periodo, Andrea?

«Non vorrei sembrare irrispettoso, ma quasi quasi mi viene da dire che non me ne sono nemmeno accorto. Entrare all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano mi ha fatto un certo effetto, non lo nego, d’altronde quello che si vede mette angoscia. Per il resto, però, posso definirmi fortunato».

Addirittura?

«Sì, il tumore è stato scoperto in tempo e i miei genitori non si sono scoraggiati né mi hanno compatito più di tanto. Quel che bisognava fare l’ho sempre fatto, che senso avebbe avuto lamentarsi o sindacare? La chemioterapia mi ha fatto perdere i capelli, ma non mi è sembrato un dramma: indossavo un cappellino e uscivo lo stesso».

Anche per questo la maglia tricolore conquistata lo scorso anno tra gli juniores ha avuto un significato diverso.

«Senza dubbio, fino ad oggi si tratta della vittoria più importante della mia carriera. Era l’obiettivo principale della squadra, io ero un po’ scettico perché avrei dovuto affrontare i talenti italiani più promettenti. Ho attaccato quando al traguardo mancava ancora un bel po’ e in volata ho battuto Germani (da quest’anno nella formazione giovanile della Groupama-Fdj, ndr). Un successo splendido proprio perché inaspettato, insomma. E prestigioso, anche».

E tra i dilettanti, invece, quali corse ti auguri di vincere?

«Intanto sarebbe bello sbloccarsi, ma non mi faccio troppe illusioni: sono al primo anno nella categoria, debutterò soltanto il giorno di Pasqua al Trofeo Piva e avrò a che fare con talenti internazionali più grandi di me anche di due o tre anni. In generale, tuttavia, sarebbe bello ripetersi nei campionati italiani e portare a casa una tappa in una corsa a tappe, penso al Valle d’Aosta o al Giro d’Italia».

Non la generale, dunque, forse troppo impegnativa per te. Come ti definiresti?

«Un passista veloce, pericoloso negli arrivi a ranghi ristretti ma ancora troppo poco scaltro, e forse timoroso, per distinguersi nelle volate di gruppo. Ecco, visto che si è disputata pochi giorni fa penso alla Milano-Sanremo: un chilometraggio importante, una salita non troppo lunga né esigente nel finale e un arrivo in pianura. Una classica adatta alle mie caratteristiche, ecco».

Quali sono le altre che ti piacerebbe vincere?

«Più della Sanremo? Nessuna, sinceramente. Potrei aggiungere una frazione in uno dei tre grandi giri, ma non c’è nessuna classica che spero di vincere più della Sanremo. Con la squadra, tra l’altro, l’abbiamo seguita: una volta arrivati a Imperia, ci siamo cambiati e abbiamo affrontato Cipressa, Poggio e poi giù fino all’arrivo. Una grande emozione».

Saronni, che come te viene da Parabiago, la Sanremo l’ha vinta in maglia iridata. Qualcuno te l’ha mai raccontato?

«Giuseppe Saronni in persona. Io ho iniziato da bambino nella Saronni Parabiago, la sede era a 500 metri da casa mia. Antonio, suo fratello, ci allenava e lo vedevamo spesso. Giuseppe, invece, si vedeva un po’ meno, ma ho comunque potuto scambiarci due parole. Se fossi nato tanti anni fa, non avrei avuto dubbi: avrei tifato Saronni, mica Moser. Mi ha raccontato molti aneddoti, mi ha spiegato com’è cambiato il ciclismo negli ultimi decenni: una vera e propria scuola di ciclismo».

Con le dovute proporzioni, possiamo dire che gli assomigli?

«Per me sarebbe un onore. Ogni tanto ci penso anche io e non mi sembra sbagliato come accostamento: anche lui era molto veloce, poteva contare su uno scatto bruciante e non lo si poteva certo definire uno scalatore puro. Sì, atleticamente parlando il paragone può reggere. Mi mancano soltanto le sue vittorie…»

Oltre a Saronni, a quali corridori ti ispiri?

«Quand’ero più piccolo stravedevo per Cavendish. Perché? Non saprei dirvelo, le sensazioni dei bambini non si spiegano. Lo vedevo vincere e questo bastava. E’ così che ho iniziato a tifare l’Inter, per esempio: vedendola vincere in Champions League nel 2010. Oltre a Saronni e Cavendish, dico Sagan e Nibali: due campioni, due esempi di classe, costanza e fantasia».

A proposito di fantasia, riesci ad immaginarti professionista nel giro di qualche anno?

«Sì e no: sì perché sono consapevole d’essere talentuoso e nelle varie categorie ho sempre vinto e convinto; no perché non mi piace cantar vittoria, compio 19 anni il 9 aprile e ho ancora tanto da dimostrare».

Come hai iniziato a pedalare?

«Mi sono appassionato di punto in bianco, direi. Mio padre è appassionato, ogni tanto esce in bicicletta, ma niente di che. La prima bici fu una Coppi bianca coi particolari blu e rossi. La signora che ce la vendé, a mo’ di battuta, mi disse che una bici con un nome del genere non poteva che regalarmi tante coppe».

Aveva ragione?

«Per ora direi di sì. A sette anni la prima corsa, temevo di perdermi e invece l’ho vinta per distacco. Quell’anno, sulle 24 gare totali, ne conquistai 21».

Per consacrarti hai deciso di andare a correre in Spagna, per la formazione giovanile della Kometa.

«Sì, Alessandro Fancellu è stato il primo del Club Ciclistico Canturino a compiere questo passaggio e ha aperto la strada a tutti quelli venuti dopo di lui, me compreso. Non sono ancora andato in Spagna, i non residenti per il momento non li fanno entrare, quindi di persona non ho conosciuto nessuno. Però le riunioni sono in spagnolo, col mio preparatore mi confronto in inglese: è un’esperienza a tutto tondo, non soltanto ciclistica».

Perché non si tratta mai soltanto di ciclismo. Quali sono, ad esempio, le passioni che coltivi?

«Mi piacciono Lego e costruzioni, durante la quarantena ho assemblato due puzzle da 1000 pezzi l’uno. Quest’anno, poi, ho l’esame di maturità. Frequento il liceo scientifico, poi andrò all’università, mi piacerebbe frequentare Scienze della comunicazione. Il mestiere del giornalista mi piace molto, non si può mai sapere. Leggere mi piace, scrivere ancora di più. Quando scrivo, così come quando pedalo, sento di potermi esprimere».