Buon compleanno Pantani: 51 anni da Pirata, campione indimenticabile

Marco Pantani
Marco Pantani in maglia rosa sul podio del Giro d'Italia 1998, vinto dal campione romagnolo
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Oggi Marco Pantani avrebbe compiuto 51 anni. E invece tra un mese fanno 17 anni da quando se n’è andato, lui ne aveva 34 appena: a quell’età si diventa genitori, uno sportivo di alto livello ha ancora molto da dare, di certo non è l’età giusta per morire – a patto che ne esista una. Come tutti gli idoli scomparsi troppo presto, nella memoria di chi l’ha seguito e venerato rimarrà eternamente giovane, trentaquattrenne per sempre. Un destino degno di una rockstar, anche se il suo preferito era Charlie Parker, sassofonista e compositore di jazz, affossato da una vita d’eccessi alla stessa età di Pantani, 34 anni.

Pantani, dalla bici di nonno Sotero l’inizio del viaggio

Anche lui ha vissuto eccessivamente, talvolta gli sarebbe convenuto vivere un po’ meno: ma la Romagna sa essere tentatrice e lui, grazie alle sue imprese ciclistiche, veniva trattato alla stregua di una giacchetta tirata da tutte le parti, pensando al tornaconto e non alla persona. Da bambino quelle stravaganze erano soltanto capricci e irrequietezze: la voglia di scappare da casa per giocare in strada, le prime volate con una bicicletta grande che pesava più di lui, le lucertole lanciate addosso alla madre che le odiava. Poi, intorno ai 12 anni, arrivò la bicicletta: gliela regalò il nonno, Sotero, quello che lo aveva sempre portato a pescare; oppure, in alternativa, sul porticciolo di Cesenatico da dove partivano, passavano e tornavano le barche.

Questo è stata la bicicletta per Pantani: esplorazione, divertimento, consapevolezza. Lo stancava, da adolescente pedalava anche per otto ore al giorno, ma in compenso gli regalò un sogno: diventare un corridore professionista. «Da grande voglio diventare un campione come Saronni», recitava un bigliettino scritto da Pantani quand’era bambino e ritrovato diversi anni dopo. E invece è diventato Marco Pantani, un mito che quasi rivaleggia con Fausto Coppi pur avendo accumulato, nel corso di una carriera travagliata, il numero di vittorie che tanti fuoriclasse conquistavano in un paio di stagioni appena.

Di Pantani, o almeno questa è la sensazione di chi scrive, le vittorie e i grandi attacchi col tempo sono diventati il lascito meno importante. Cosa importano il Giro e il Tour vinti in mezz’estate, quando il soggetto è un corridore che ammette d’andar forte in salita per abbreviare la propria agonia? Quanto può essere importante un affondo sul Mortirolo e un assolo a Les Deux Alpes, nel ricordo di uno sportivo che talvolta viene paragonato ad un artista, tanto è stata unica e irripetibile la sua opera? Il manifesto delle difficoltà e delle contraddizioni che può vivere e incarnare un atleta: ecco cos’è stato, anche, Marco Pantani.

Di lui, finalmente, sono rimaste due cose. Lo sguardo che si ritrova in ogni sua foto, perennemente malinconico e fanciullesco anche nei frangenti più delicati e maschi. Quando attaccava in salita, Pantani non era la maglia rosa o il più forte scalatore al mondo: era il bambino che si ritrovava, improvvisamente, protagonista dei racconti più avventurosi che il nonno gli raccontava una vita prima. È rimasta, poi, l’impronta: dei corridori italiani che oggi pedalano in gruppo, pochi non nominano Pantani quando parlano della loro infanzia e dei loro inizi ciclistici. Ragazzi di 25 anni, che del miglior Pantani non avevano potuto godere né possono vantare dei ricordi. Lo hanno rivisto nelle repliche televisive, quando il segnale non sempre era impeccabile e l’immagine si sgranava un po’. E allora, quanto tempo è passato da Marco Pantani? Un giorno o una vita?