Acquadro sul tradimento Movistar: «Ognuno fa la sua corsa, la sfida tra Carapaz e Roglič continua»

Giuseppe Acquadro, procuratore di Richard Carapaz
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Giuseppe Acquadro a scuola sarà stato un asso in letteratura italiana oppure avrà imparato a memoria tutti i film di Harry Potter. Perché l’Innominato di Alessandro Manzoni e il Tu sai chi creato dalla saga di successo planetario sul maghetto più famoso del mondo, riecheggiano quando rispolveriamo gli eventi della tappa-clou della Vuelta che hanno coinvolto uno degli atleti più forti seguiti da Acquadro ovvero Richard Carapaz e la sua ex squadra, la Movistar: team con il quale il procuratore piemontese ha lavorato per oltre un decennio, tra successi e piazzamenti di prestigio.

Quibicisport.it, in un’interessante chiacchierata insieme a Giuseppe Acquadro, ha analizzato, commentato e scandagliato diverse tematiche molto attuali: dopo una breve ma doverosa parentesi sull’episodio avvenuto sabato scorso sulle strade iberiche, Acquadro ha tracciato un bilancio della stagione e ci ha portato alla scoperta del magico mondo del Sud America. Lui che da piccolo si è appassionato al ciclismo grazie alle letture delle pagine a colori di Bicisport cerca poco la polemica, al contrario del vangelo professato nei templi moderni dei Social dove con grande rapidità si innescano meccanismi incredibili.

E una perla di saggezza finale di Acquadro: i secondi posti, le Top Five e le Top Ten hanno un valore immenso nel ciclismo di oggi e poi sui giovani che non vanno bruciati e spremuti troppo in fretta. Vanno gestiti nel migliore dei modi.

Carapaz è arrivato secondo, comunque un grandissimo risultato. L’episodio della Vuelta lo hanno visto e valutato tutti: Acquadro, lei come lo commenta?

«Non mi piace fare polemiche, guardiamo avanti. Quello che c’era da vedere si è visto. Ognuno in quel momento fa la sua corsa. Come hanno detto loro alla fine volevano salvaguardare il quinto posto e magari di guadagnare il quarto a discapito di Daniel Martin che si era staccato poco prima. Hanno dato questa giustificazione qui: polemiche tra me ed Eusebio alla fine ci sono sempre state. Io non ho mai risposto alle sue polemiche da quando ha deciso di non voler più lavorare con me, dopo dodici anni. Guardo avanti e Richard alla fine ha fatto secondo: perdere di 20” spiace, ma Roglic è un grandissimo corridore che quest’anno ha avuto una continuità impressionante e merita un grande chapeau per essersi ripreso dopo la botta dell’ultimo giorno del Tour. Riuscire a tenere la testa salda e addirittura vincere anche la Liegi dimostra come lo sloveno sia un vincitore meritato come è stato un meritato antagonista Richard. Si sfideranno ancora già dal prossimo anno».

Un bilancio di questa stagione, racchiusa in pochi mesi, i suoi corridori sono stati protagonisti.

«Quest’anno è stata una stagione un po’ particolare per tutti e probabilmente chi è riuscito a entrare nelle prime gare con un buon livello di forma ed è stato capace di gestirla, ha avuto la possibilità di fare tanti risultati consecutivi che forse in una stagione normale è più difficile fare perché le gare restano molto più frazionate. Quest’anno uno che era forte al Lombardia poteva esserlo anche al Giro, molto più facilmente. Chi era in ritardo di forma, perché non ha potuto fare una preparazione completa per via della situazione del lockdown ha patito di più e poi è diventato difficile ritrovare una condizione di livello immediata. I miei corridori sono andati tutti abbastanza bene: Richard (Carapaz, ndr) secondo alla Vuelta, c’è stata la sfortuna dei problemi di salute di Egan che si sono accentuati proprio appena prima e durante il Tour e questo ha compromesso la sua stagione, ma tornerà più forte il prossimo anno e con più fame».

Acquadro da esperto conoscitore del mondo del Sud America, ci può dire come vivono i ragazzi di quei Paesi il passaggio nel Gotha del ciclismo?

«Per loro l’unica grande difficoltà dopo due, tre o quattro anni che sono qui è un po’ la lontananza dalla famiglia. In una stagione più programmabile si possono scegliere i periodi in cui possono stare a casa in Colombia e di allenarsi lì in altura e poi tornare. Quest’anno è risultato un po’ più complicato fare questo. I ragazzi che sono adesso a livello alto sono tutti ragazzi seri che amano fare il ciclismo e lo fanno nel migliore dei modi. Delle volte non si ottengono risultati e altre ne arrivano di più grossi: appena si fa fatica a raggiungere risultati ai sudamericani viene subito affibbiata la cosa che fanno la vita, che hanno guadagnato. Ma lo sport non è due più due uguale quattro e talvolta non si arriva anche facendo le cose bene al 100%. Ci sono tanti fattori: di salute o una caduta in gara che ti fa perdere degli allenamenti e dopo vai alla ricerca di una condizione che magari trovi o rischi di rincorrere per tre-quattro mesi e non riesci a trovarla».

La concorrenza si è allargata moltissimo: vincere nel ciclismo attuale è sempre più difficile.

«Sì, è un po’ il discorso che si fa sugli italiani, gli spagnoli o i francesi che non vincono il Tour da trentacinque anni. Questo fa parte dell’allargamento che c’è stato in quanto a Paesi che praticano il ciclismo ormai a livello mondiale. Da qualsiasi Paese può uscire un vincitore di un Grande Giro, di una grande classica. In futuro si allargherà ancora di più: penso ai Paesi africani, ad altri che sono alla ricerca di emergere come Cina o Giappone. Nel giro di quindici, venti anni diventerà un discorso globale e per i Paesi con maggior tradizione sarà difficile vincere contro personaggi più competitivi di altre nazionalità. Cosa che prima non c’era, essendo il tutto racchiuso in sette-otto nazioni trenta quarant’anni fa».

L’exploit della Colombia è emblematico.

«Dieci anni fa c’erano cento juniores che provavano a correre, adesso ce ne sono tremila. Questo grazie ai risultati ottenuti da Quintana, Uran, poi i giovani con Bernal e tutti gli altri. Vedendo questi campioni è normale che ci sono più ragazzini che provano».

Acquadro, dove nasce la sua passione per il ciclismo?

«Correvo da giovane, sono arrivato fino al primo anno da Under. Ho corso per squadre locali tra cui UCAB Biella e Pedale Biellese con qualche discreto risultato da allievo e juniores e poi ho continuato il lavoro di famiglia. Andavo a vedere ogni tanto le corse e le seguivo già dall’età di otto anni tutte alla tivù. Leggevo Bicisport quando ero bambino e preferivo la Liegi vinta da Hinault alle partite. Una ventina di anni fa dei ragazzi che conoscevo mi chiesero se potevo seguirli per i contratti: ho iniziato così e poi lavorando man mano in maniera penso buona per i ragazzi sono arrivato fin qui».

Con un incastro tra pasticceria e pedali: quali sono stati i torcetti piemontesi che in questi anni di ciclismo le sono riusciti meglio?

«La prima vittoria di Uran al Giro di Svizzera, all’età di diciannove anni, quando si capì che poteva diventare un buonissimo corridore. Due corse che mi hanno tantissime emozioni sono state il Mondiale e la Milano-Sanremo vinti da Kwiatkowski: le corse di un giorno danno un’emozione secca, spettacolare. E poi i Grandi Giri vinti: il primo con Nairo nel 2014, il Tour di Bernal e il Giro di Carapaz. Delle volte anche un podio è un grandissimo risultato: il secondo posto di Rigoberto (Uran, ndr) al Tour dietro Froome è stato un altro grande traguardo raggiunto. Ogni corsa, dalla più grande alla piccola, regala emozioni».

Anche i secondi posti hanno un grande valore, andrebbe ricordato più spesso.

«Nel ciclismo, come in tutti gli sport, forse non si valorizza troppo un secondo, terzo o un quinto posto in un Grande Giro. Non si arriva a capire la fatica che c’è dietro e la selezione che un ragazzo deve passare per arrivare ad avere questi risultati. È una selezione grandissima dalle categorie giovanili fino ai livelli dell’Elite mondiale. Delle volte dicono “Ha fatto sesto al Giro, al Tour, solo settimo”: bisognerebbe provare per capire quanto è difficile arrivare a fare quei risultati».

I giovani arrivano prontissimi al grande salto: lo testimoniano i trionfi di Pogačar e Geoghegan Hart: continuerà questo trend secondo lei?

«Non bisogna commettere l’errore di pensare che tutti siano degli Evenepoel, dei Bernal o Pogačar. Diventa difficile confrontarsi e parlare con un ragazzo giovane perché vogliono arrivare subito in una squadra World Tour: questo secondo me tante volte è un errore. A diciotto anni fare il salto da juniores a professionista se uno ha talento enorme ci sta, però un anno o due in una squadra Professional fa solo che bene. Perciò le squadre Professional andrebbero protette un po’ di più, ma il problema è legato alle sponsorizzazioni che sono difficili da reperire soprattutto in questo momento. Un’idea vantaggiosa per i Grandi Giri è che non si dovrebbe avere l’obbligo di raggiungere la quota di diciotto squadre World Tour. L’obbligo dovrebbe essere riservato alle prime dieci-dodici della classifica World Tour della stagione precedente, perché è giusto che le squadre importanti abbiano il diritto di partecipare al Tour, alla Vuelta e al Giro. Nel caso in cui una World Tour si rifiutasse potrebbe lasciare spazio a una Professional che darebbe la possibilità ai giovani di mettersi in evidenza o costruirsi un futuro più solido con sponsor nuovi. D’altra parte anche le Professional dovrebbero avere almeno due-tre corridori di un certo valore e competitivi. Riguardo il trend ricordiamo che Pogačar è passato prima in una squadra più piccola e anche Bernal si è formato all’Androni: bisogna valutare caso per caso, le squadre non devono caricarsi ora di troppi giovani perché con una stagione che tutti ci auguriamo torni alla consuetudine l’anno prossimo, le forze dei nuovi andranno gestite bene».

Acquadro nel 2021 che stagione si aspetta per i suoi corridori?

«L’obiettivo è fare ottime cose alle corse a tappe con Egan, Richard e Nairo e nelle corse di un giorno con Kwiatkowski che nei percorsi duri ha dimostrato di essere in ottima forma se arriva al 100% della condizione si può giocare qualsiasi corsa su qualsiasi percorso».