Mondiali ed Europei, percorsi uguali e un solo protagonista. Così vince la prevedibilità

Pogacar
Tadej Pogacar conquista il suo secondo mondiale consecutivo (credit: UCI Cycling).
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Un dejà-vu struggente, una liturgia in cui il finale è scritto prima ancora che il via venga dato. I Mondiali in Ruanda e il Campionato Europeo in Francia, due eventi che dovrebbero essere l’apice della lotta e dell’imprevedibilità, si sono invece risolti in una noiosa, seppur magnifica, esecuzione di classe firmata da Tadej Pogacar. Oro per lo sloveno, argento per Remco Evenepoel. In entrambe le occasioni.

C’è da applaudire, certamente. La grandezza di Pogacar è incommensurabile, la forza di Evenepoel titanica. Ma al di là della celebrazione dei due campioni, sorge spontanea una domanda scomoda: ma chi ha deciso che Mondiali ed Europei debbano essere due fotocopie, due percorsi da incubo per scalatori puri, salite su salite che selezionano in maniera così brutale da escludere a priori almeno il 90% del lotto di partenti? È questo il modo migliore per celebrare il ciclismo? Creare due eventi consecutivi che premiano esattamente le stesse caratteristiche, consegnandolo allo stesso atleta, non è stata forse una grande idea.

L’assenza, o la non competitività, di corridori importanti come Mathieu van der Poel e Wout van Aert in queste due kermesse è un campanello d’allarme che dovrebbe suonare a tutte le ore nelle orecchie degli organizzatori. Due atleti che, in qualsiasi altro contesto, sono in grado di mettere in difficoltà anche lo stesso Tadej e di tenere milioni di tifosi incollati alla televisione. Ebbene, con questi percorsi, sono stati praticamente esclusi dalla lotta per la vittoria.

Non è una questione di forma, è una questione di opportunità. Quando il tracciato è così estremo, la prevedibilità diventa il vero killer dello spettacolo. E qui si arriva al punto cruciale: la noia. La prevedibilità. Sappiamo già, con un margine di errore minimo, chi potrà vincere su certi percorsi.

La bellezza del ciclismo, la sua anima più autentica, risiede nell’imprevedibilità, nella lotta tra diversi talenti, nell’equilibrio tra forze contrastanti. Un Mondiale dovrebbe essere un palcoscenico per tutti i tipi di campioni: per chi scatta, per chi resiste, per chi sa essere furbo. Invece no. Si è scelta la via più semplice, o forse la più miope: quella dello spettacolo del dolore puro, della selezione brutale. Uno spettacolo che, ripetuto a pochi giorni di distanza, stanca. Perde di mordente.

Non si chiede di banalizzare le corse, di renderle facili. Tutt’altro. Si chiede intelligenza, varietà, visione, come accade per esempio alla Milano-Sanremo. Perché non pensare a un Europeo più adatto a corridori come Van Aert, con tratti sterrati, muri brevi e tecnici, e a un Mondiale più classico per i puristi della salita? O viceversa? Perché non osare, diversificare, creare un calendario di eventi iridati che sia veramente una festa di tutti i talenti?

Continueremo ad ammirare le gesta di Pogacar. Ma il rischio è che, presto, ci ritroveremo a sbadigliare davanti a un fenomeno che, per quanto sublime, conoscevamo già.