Vent’anni senza Pantani, Martinelli: «Era un extraterrestre, non potevo farci niente»

Pantani
Marco Pantani e Giuseppe Martinelli studiano il percorso dell'80ª edizione del Giro d'Italia
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Beppe Martinelli, quando i tuoi nipoti ti chiederanno chi era Pantani che cosa dirai?

«Gli farò vedere quello che faceva, oggi è più facile che un ragazzo guardi piuttosto che ascolti. Glielo farò vedere e poi dirò: questo ragazzino l’ho conosciuto quando ancora vinceva da dilettante e poi è stato l’unico negli ultimi trent’anni che ha fatto innamorare le persone normali del ciclismo. Tutti guardavano le imprese di questo ragazzo, ed è questa la forza di Marco».

Sei riuscito a capire perché?

«Perché vinceva quando la gente immaginava di vederlo vincere. C’era una salita e tutti si aspettavano che si muovesse Pantani, che vincesse Pantani. E una buona parte di quelle corse le ha vinte davvero, o almeno è stato protagonista fino in fondo. Non ho mai visto Marco scattare su una salita a 500 metri dall’arrivo com’è successo a molti altri campioni. Quando iniziava la salita la gente pensava: adesso parte Pantani. E il bello è che Pantani partiva. È stato un fuoriclasse, uno che poteva cambiare le corse, e ha cambiato il ciclismo. A suo favore. Quando andavo in giro con l’ammiraglia lo riconoscevano tutti: non mi è mai più successo, e di campioni ne ho avuto molti».

Per te chi è stato Marco?

«Era un qualcosa che sentivo dentro, più di qualunque altro corridore che ho avuto prima e dopo. Non dico che parlavo con lui come a un figlio, ma quando parlavo con lui sapevo di potermi confidare, e tirargli fuori qualcosa. Aveva un’intelligenza sopraffina, ti poteva fregare in qualunque momento se non eri preparato. Non faceva tantissime domande, ma se non eri bravo a rispondere ti smascherava subito».

Ti ricordi la prima volta che l’hai visto?

«Per forza. Ero alla Carrera, nel 1991. Amadori mi aveva detto che c’era un corridore che andava veramente forte in salita e pensai di andarlo a vedere alla Bologna-Raticosa. Non conoscendola, mi sembrava la corsa giusta per capire uno scalatore. Presi l’ammiraglia e andai. Mi misi dietro al primo gruppetto. Marco arrivò terzo. Andai a presentarmi, lui sapeva che ero il direttore sportivo di Chiappucci, Roche e Visentini. Mi disse subito: oh, guarda che questa non è mica una salita, sono partito troppo tardi perché pensavo che fosse più dura, io in salita vado più forte di così. Dava per scontato che l’avrei preso con me».

Qual è la cosa che hai visto solo in Marco?

«Sarebbe normale dire quanto andava forte in salita. Ma io l’ho visto andare più forte in allenamento che in corsa. In gara sei preso da tutta una serie di fattori: l’emozione, la classifica, il fatto di dover vincere. Ma quello che gli ho visto fare in allenamento non l’ho mai visto fare a nessuno. E faceva in modo che io non potessi seguirlo. Mi diceva: aspettami qua che torno indietro subito. Qualche volta mi ha fregato. Ma altre volte facevo finta di aspettare e poi lo seguivo: oh, non lo trovavo più, lo prendevo magari dopo cinque chilometri. Andava come nessuno».

L’impresa più grande che gli hai visto fare in corsa?

«Alpe d’Huez, 1997. Se glielo chiedessi oggi credo che ti risponderebbe così anche lui. Magari dopo averci pensato un po’, me lo vedo che mi guarda e mi interroga con gli occhi, perché a lui non sarebbe venuto in mente».

È stato il giorno in cui l’hai visto più felice?

«Sì. Quel giorno si è liberato di un incubo. Era tornato. Pensa che il direttore del Tour, Leblanc, mi aveva chiamato prima del Giro di Svizzera, perché Marco era caduto al Giro e si era ritirato. E Leblanc mi aveva telefonato per dirmi che voleva invitarci al Tour de France: ma sei sicuro che Pantani viene per fare bene? Io gli risposi: non preoccuparti, sono quasi sicuro che faremo bene. Parlavo in francese, e Leblanc mi fa: come quasi? Oh, non potevo mica metterci la mano sul fuoco, ma gli assicurai che ci stavamo preparando bene».

Oggi Pantani sarebbe isolato e rarefatto come Baggio o parlerebbe di ciclismo tutti i giorni?

«Se lo chiedi a Martino, ti direi come Baggio. Se invece mi chiedi come vorrei che fosse, rispondo che potrebbe essersi inventato qualunque cosa. Ma propendo più per l’ipotesi Baggio».

Pantani era più talento, più voglia di farcela o più sacrificio?

«Talento sicuramente al cento per cento, e quello o ce l’hai o non ce l’hai. Sul fatto che fosse capace di soffrire, dubbi non ce ne sono. Quanto ai sacrifici, a lui veniva abbastanza facile tutto. Magari faceva il sacrificio – mentale più che fisico – di dover arrivare preparato al Giro. Tutto qui».

Facci un esempio. Se apriva la finestra ed era brutto tempo usciva in bici lo stesso?

«Mah. Era più facile che non aprisse la finestra. Era uno che se la mattina aveva voglia di andare a fare un giro con un suo amico, andava a fare il giro invece di allenarsi. Poi magari usciva in bici alle cinque del pomeriggio e stava fuori fino alle nove di sera. Gli atleti normalmente hanno una routine, lui no».

C’era una cosa che non sopportavi di lui?

«Quando non mi rispondeva al cellulare. Cambiava proprio le schede del telefono: magari ne trovava una che non usava da sei mesi e la metteva nel telefono. Vorrei farti vedere la mia agendina: avrò quindici numeri di Pantani. Perché una volta che lo beccavo, mi segnavo il numero e quella scheda magari mi tornava buona l’anno dopo. Per lui era tutto normale. Sapeva che prima o poi sarei riuscito a trovarlo. I campioni non pensano mai normalmente, sono convinti che anche gli altri ragionino con la loro testa».

Ti ricordi la litigata peggiore?

«Non ne abbiamo avute molte. Forse una volta che mi aveva fregato, era ancora abbastanza giovane, era il ’94: siamo andati al Giro del Messico con la Carrera per fare bene. C’era lui, c’era Chiappucci, Schiavina. In aereo gli vado vicino: dimmi un po’ gli allenamenti che hai fatto. E lui: ma lì dove andiamo non c’è modo di fare allenamento? Impazzisco: ma come, serve un adattamento, saremo a duemila metri. Ho scoperto in aereo che non si era allenato praticamente mai, mi sono arrabbiato e lui diceva: ma dai, abbiamo quindici giorni… Oh, se non sbaglia strada l’ultima tappa la vince».

Hai mai incontrato un corridore che ti ha fatto pensare a Pantani?

«Un pochino l’inizio di Cunego. Non per paragonarli, non c’entrano niente, ma perché pensavo che con Damiano avrei vinto molto di più: quando vinci un Giro d’Italia a ventun anni è legittimo pensare che farai una sfilza di vittorie. Ma uno come Marco non l’ho mai trovato. Neanche Nibali: ha vinto molto di più, ma è tutt’altro corridore, un corridore completo. Ma in salita uno forte come Marco non l’ho mai visto».

C’è una volta in cui ti ha sorpreso?

«Sempre, quasi sempre. Era la sua facilità di interpretare tutto fuori dagli schemi che mi sorprendeva. Gli spiegavi una salita inedita nei dettagli, per ore, e alla fine ti diceva: ma non l’abbiamo già fatta questa salita? Niente, non c’era verso. Ne parlavo pochi giorni fa con Maini: alla Mercatone Uno gli avevamo creato addosso il vestito che voleva, su misura. In qualunque altra squadra non sarebbero riusciti a farlo: perché dovevi prendere dei corridori che a lui piacevano e che facevano quello che voleva lui. Alla Carrera c’erano corridori fortissimi ma Bontempi non lo metti in fondo al gruppo, Bontempi vuole stare nei primi venti. Ghirotto uguale. Roche idem. Invece noi avevamo Fontanelli, Conti, Borgheresi, Siboni, Podenzana, che correvano in fondo al gruppo dove voleva lui. Se Marco voleva andare davanti, andavano davanti. Se voleva stare in mezzo, stavano in mezzo. Questa è stata la sua fortuna».

A volte ci vuole la giusta distanza per capire la portata di quello che abbiamo passato: che stavate facendo la storia lo avevi capito?

«Io sto sempre un po’ seduto, nel vero senso della parola. Lo capivo quando tornavo a casa, quando vedevo delle persone e mi accorgevo di cosa aveva fatto Marco, di cosa avevamo fatto. In quella bolgia lo capivo davvero poco. L’unica volta che ho avuto la sensazione che stavamo facendo una cosa fuori dal comune è stato al Tour del ’98, quando ho cominciato a pensare che Marco avrebbe fatto la doppietta. Quando mi assalì la paura di non arrivare a Parigi e andai in camera sua: Marco, fai di tutto perché il Tour arrivi a Parigi, perché se no in Italia ci ammazzano. Ma lo sai quanti anni sono che non vinciamo il Tour, dicevo. Lui non lo sapeva mica».

Una volta che ti ha ascoltato?

«Parecchie volte mi ha dato retta. Se quest’intervista, dopo vent’anni, l’avessi fatta a lui invece che a me, ti avrebbe detto che Martino è stato un bravissimo direttore sportivo per lui ma più che altro un uomo. Un uomo che mi ha detto tante cose, forse avrei potuto ascoltarlo di più, o forse non avrei dovuto ascoltarlo mai. Sarebbe stato vago, com’era Marco. Le soddisfazioni più grandi me le ha date quando parlavamo di nulla, quando mi prendeva quasi come un amico. Anche se sono convinto che non abbia mai pensato a me come un amico, io ero il suo direttore sportivo». 

E la volta che non ti ha ascoltato?

«Dovevamo andare a Roma, al Coni, dopo Madonna di Campiglio. Gli dico: vengo a Cesenatico con la mia macchina e guido io. Arrivo a Cesenatico, e ha cambiato idea: vuole andare con la sua. Non c’è stato verso di convincerlo. Prendiamo la E45 e lui va ai duecento: e io urlavo, ma lui mi diceva di stare calmo che non c’era nessuno. Ci ha inseguiti una pattuglia della polizia per venti chilometri, e gli urlavo di fermarsi e lui faceva: li seminiamo. Quando ci hanno raggiunti ovviamente gli hanno ritirato la patente».

L’ultima volta che l’hai visto?

«L’ultima volta che ci siamo parlati eravamo a una Coppi e Bartali. Poi l’ho rivisto anche al Giro del 2003, però io cercavo di chiedere di lui a chi sapevo che avrebbe mantenuto il segreto, e sapevo che aveva cominciato il 2004 in salita, veramente in salita. Mi sarebbe piaciuto incontrarlo ancora ma era impossibile, più per me che per lui: non sarei stato in grado di dirgli niente».

Da chi hai saputo che Marco era morto?

«Da Bianco, un suo amico vero, il suo primo tifoso. Me lo ricordo come se fosse adesso».

Quante volte pensi a lui?

«Marco io ce l’ho stampato qua. Mi dispiace – questo scrivilo bene – che a volte mi tira per la giacchetta qualcuno che non l’ha conosciuto o qualcuno che crede di averlo conosciuto».

Hai dei rimpianti Martino?

«Sì, ho dei rimpianti. Dal mio punto di vista tutti noi potevamo fare qualcosa di più. Ma sarebbe stato come scalare una montagna infinita. Quando ci siamo lasciati io ho passato delle notti insonni, ma non perché fossi senza squadra, perché sapevo di lasciare una persona a cui avevo dato l’anima e che credeva ciecamente in me. Però era arrivato il momento di staccare la spina. Rimpianti ne ho a centinaia. Ma non perché mi dico che potevo salvarlo. Quando un extraterrestre come Marco decide di fare qualcosa non ci sono santi che tengano».