Amadori: «Servono più corse a tappe. Gli elite? Vergallito ha dimostrato che chi merita passa»

Dopo una buona stagione, Marino Amadori è già al lavoro per programmare la prossima
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Anche per Marino Amadori è tempo di tirare il fiato e di guardarsi indietro. Si può sempre far meglio, per l’amor di dio, ma complessivamente la stagione è stata buona.

«Abbiamo coinvolto una quarantina di ragazzi e una ventina di squadre – riflette – Per questo non posso che ringraziare la Federazione: quante altre nazionali hanno affrontato il nostro calendario? Certo, il 2024 sarà un anno olimpico, quindi la maggior parte delle risorse saranno destinate altrove. Faremo qualche trasferta in meno, ma è comprensibile. Anzi, la prossima settimana m’incontrerò con la Federazione proprio per iniziare a inquadrare la prossima stagione: i temi non mancano».

Qual è il primo che ti viene in mente?

«I numeri sono impietosi, nel bene e nel male. Non sono tutto, ma possono dare una mano a capire che aria tira. Noi abbiamo una cinquantina di squadre dilettantistiche, decine e decine di corridori tra World Tour e Professional, ma facciamo fatica a raccogliere risultati prestigiosi con una certa continuità. Perché? I nostri corridori non vengono considerati come meriterebbero? Non riescono a motivarli? Sono ridotti a dei semplici gregari?».

Ma queste sono problematiche del professionismo che non dovrebbero riguardare il commissario tecnico dei dilettanti.

«Sbagliato, perché il ciclismo è una catena, oggi più che mai. E sbagliato due volte perché poi mi si viene a dire che l’Italia non raccoglie nulla nemmeno a livello giovanile e che noi logoriamo i talenti migliori che abbiamo. Non ci sto: il nostro paese sa insegnare ancora il ciclismo, e i risultati che raccogliamo qua e là lo dimostrano. Quello che io credo è che siamo rimasti indietro: questo sport è cambiato e tanti addetti ai lavori, forse dispiaciuti e feriti da questo cambiamento, hanno preferito non adattarsi. Ma così andremo sempre peggio».

Spiegati meglio, Marino.

«Piaccia o meno, il modello ora come ora sono le formazioni di sviluppo. Io capisco che sia impossibile copiarle: per farlo mancano le risorse e probabilmente non sarebbe giusto comunque, perché l’Italia ha un’anima e una tradizione, non può ridursi a copiare gli altri. Ma il modello sono le development. Come si comportano? Corrono il giusto, specialmente coi primi anni, ma partecipano a degli appuntamenti importanti. Il contrario di quello che facciamo noi».

Luca Vergallito in azione al campionato italiano, alle sue spalle si riconoscono Ganna, Pozzovivo e Moscon. Grazie ad una stagione brillante, il ventiseienne milanese si è guadagnato la promozione nella prima squadra della Alpecin-Deceuninck.

Come si risolve questo problema?

«È complicato, ma bisogna provarci. Tanti direttori sportivi stanno adottando una mentalità diversa, più europea. Ad esempio, le squadre più piccole secondo me hanno una missione ben precisa: puntare su quei corridori di seconda fascia che non trovano spazio nelle formazioni più blasonate e provare a valorizzarli. Consapevoli, però, di scommettere sulla loro crescita e di dover sacrificare qualche risultato. Il problema è sempre lo stesso: chi investe, chi ci mette i soldi, ha piacere a vincere. Ma con questa mentalità non si va da nessuna parte, perché quando queste realtà si rendono conto di non poter competere coi migliori chiudono i battenti».

Non c’è questo rischio? Quello di impoverire ulteriormente il movimento?

«I cambiamenti costano. Io credo che qualche squadre potrebbe sparire, ma altre potrebbero anche nascere, perché no? Tanto, se non invertiamo la tendenza, il nostro movimento soffrirà ugualmente sempre di più. Stesso discorso per quanto riguarda il calendario: dobbiamo ispirarci a quello internazionale. Abbiamo organizzatori appassionati e competenti, secondo me si può fare. Servono più gare a tappe, specialmente nella prima parte della stagione. Altrimenti chi non entra nel giro della nazionale e non vede l’estero ha un passo troppo inferiore rispetto ai coetanei. Noi dobbiamo pensare al movimento nel suo insieme, non soltanto ai migliori elementi e alle squadre più forti».

Ci sono sempre più corridori che escono dall’Italia, tra juniores e dilettanti. Cosa si potrebbe fare per cambiare rotta?

«Offrire ai ragazzi dei progetti appetibili, altrimenti sceglieranno sempre di più l’estero. I giovani cercano altrove quello che non trovano qui, non è che vanno in Francia, Olanda e Belgio per moda. Rimanere in Italia sarebbe molto più comodo anche per loro, ne sono assolutamente consapevoli. Ho letto proposte strampalate, come obbligarli a rimanere nel nostro paese per i primi due anni tra i dilettanti: se la pensiamo così non andremo da nessuna parte, il ciclismo ormai è internazionale, con che spirito rimarrebbe in Italia un bel talento azzurro che viene costretto a rifiutare una bella offerta straniera?».

Alcuni direttori sportivi nostrani sostengono che all’estero i ragazzi vengono bruciati prima del tempo.

«Io credo che sia più logorante il calendario dilettantistico italiano: sessanta o settanta giorni di corsa all’anno, quasi tutte gare di un giorno, una serie infinita di circuiti intepretati come dei mondiali, mentalmente stressanti e atleticamente di poco giovamento. Non hai tempo per allenarti come si deve, né per capire come si prepara un obiettivo specifico. Sono d’accordo, invece, se mi dici che è delicato il passaggio secco dal mondo degli juniores a quello del World Tour. Quello che bisogna far capire ai ragazzi è che il mondo delle development non è il punto d’arrivo: non basta militare in un vivaio per avere assicurato il contratto tra i professionisti, di conseguenza non è giusto nemmeno consumarsi nelle categorie giovanili per attirare l’attenzione di una development».

La prova in linea degli europei rimane forse la giornata da dimenticare: nessun azzurro dentro alla fuga che si sarebbe poi rivelata vincente. Da sinistra: Romele, De Pretto, Bruttomesso, Busatto, Villa, Debiasi e Amadori (foto Borserini)

Che sia tutto un problema di soldi, Marino?

«Può anche darsi, ma ci sarà sempre una scusa per convincere se stessi d’avere ragione e per non guardare in faccia la realtà. E’ vero, ci manca almeno una squadra nel World Tour, ma i nostri migliori elementi passano regolarmente tutti gli anni: Busatto, Moro, Bruttomesso, De Pretto. Villa e Persico alla Bingoal, una Professional. E’ come il discorso degli elite che state portando giustamente avanti: a me dispiace che molti di loro siano costretti a smettere, ma quanti meriterebbero davvero di passare?».

Alcuni sì: Zurlo e Ansaloni, per citarne due.

«Hai ragione, ma con quale ruolo? Diciamo quello del gregario. D’accordo, ma in quali squadre? Nelle Professional, spesso senza dei capitani veri e propri? Chi aiuterebbero? I leader per cui lavorare militano nel World Tour, ma hai un’idea di quanto è difficile entrarci? Vergallito passa nella prima squadra della Alpecin, no? Perché? Perché probabilmente è più forte di tutti gli altri. Io credo che un elite valido, prima o poi, una sistemazione la trova. Certo, deve correre in una squadra che gli permetta di mettersi in mostra e approfittare di ogni chance. Chi, invece, continua ad insistere nei circuiti regionali secondo me non può lamentarsi proprio di niente».