Regnanti all’attacco: «La fatica non mi spaventa e Provini mi motiva. Sogno il Valdarno e una tappa al Giro»

Regnanti
Matteo Regnanti della Hopplà-Petroli Firenze (foto: Enrico Tesi)
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Era il Giro d’Italia del 2010, l’undicesima tappa: da Lucera a L’Aquila. Pioveva, i chilometri erano 262. Scappò via mezzo gruppo, in maglia rosa ci sarebbero finiti prima Richie Porte e poi David Arroyo. Per strappargliela, la Liquigas di Ivan Basso e Vincenzo Nibali avrebbe attaccato lo spagnolo ovunque, fiaccandolo definitivamente verso l’Aprica.

In quei giorni, davanti alla televisione, tra i milioni di appassionati c’era anche Matteo Regnanti, che all’epoca non aveva ancora nove anni. Già pedalava, la passione gliel’aveva trasmessa il nonno, ma il ciclismo non lo aveva ancora convinto del tutto.

«Per l’amor di dio, mi piaceva stare all’aria aperta, ma non è stato amore a prima vista. Ci è voluto del tempo, insomma. Le prime gare me le ricordo tutte per un semplice motivo: ero sempre in terra, cadevo in continuazione. Non ero un drago, come si dice in gergo. Poi, piano piano, io miglioravo e qualche risultato cominciava ad arrivare. Così ho lasciato il calcio e ho abbracciato definitivamente il ciclismo, grazie anche a quel Giro d’Italia così strano ed emozionante da seguire».

Perché ti è rimasto così impresso?

«Primo perché stava emergendo Vincenzo Nibali, forse il mio corridore preferito. Con le dovute proporzioni, un po’ ci assomigliamo: entrambi passisti-scalatori, entrambi ci siamo affidati alla fantasia per provare a vincere anche quando non eravamo i più forti. E poi quel Giro mi è rimasto impresso per la fuga de L’Aquila. Io le fughe le amo».

Come mai?

«Abbastanza presto ho capito che mi piaceva far fatica. Sono un ragazzo generoso e disposto al sacrificio. Secondo me darmi da fare non mi dispiace finché riesco ad intravedere un obiettivo: mi impegno e sputo sangue, ma alla fine vinco o comunque miglioro. Una fatica che non porta da nessuna parte sarebbe insensata. So che dando tutto quello che ho posso provare a colmare quel divario che mi separa da chi ha più talento di me. Mi sento più tranquillo, più preparato: se ho fatto tutto quello che dovevo come dovevo, non ho rimpianti. E non mi possono succedere troppe cose brutte».

Sei un attaccante nato, con un discreto occhio nell’intuire le dinamiche di gara. Hai qualche rimpianto?

«Sono testardo e generoso, probabilmente fin troppo. Dovrei imparare a limare di più, a spendere meno, a nascondermi meglio in gruppo. E’ che quando sto bene non ci sento, mi piace buttarmi nella mischia e rischiare. Corro sempre in testa al gruppo, anche a cose normali: figuriamoci quando sento che la gamba gira bene. E’ quello che mi è successo più volte soltanto quest’anno».

Quando esattamente?

«Anche l’altro giorno alla Medicea, per dire. Ho attaccato perché mi hanno fatto il buco e in avanscoperta con me c’era Rizza, mio compagno di squadra abbastanza veloce. Quindi mi sono detto: se non dovesse andar bene a me, quantomeno faccio rifiatare lui. Cordioli e Bagatin, che poi hanno chiuso primo e secondo, mi hanno ripreso vicino al traguardo. Forse potevo partire qualche chilometro più tardi, forse dovevo lavorare meno: ma coi se e coi ma non si va da nessuna parte. Certo, Provini qualcosa mi ha detto».

Sei arrivato alla Petroli Firenze dopo tre anni alla Maltinti. Quand’è nata la possibilità di cambiare?

«Intanto voglio dire che alla Maltinti non mi mancava nulla e che mi sono trovato molto bene. Però sentivo di aver bisogno di altri stimoli, come se mi mancasse ancora uno scalino da provare a salire per sperare nel professionismo. Sapevo come lavorava Provini, me l’avevano detto, e quando mi ha cercato non ho esitato. E’ duro ed esigente, ma allo stesso tempo serio e comprensivo. Lo sento quasi tutti i giorni, so che con lui posso parlare anche della mia vita privata. Non è un semplice direttore sportivo, è un motivatore. E io avevo bisogno proprio di questo: di una figura esperta che tirasse fuori il meglio di me. Adesso credo molto di più nei miei mezzi, non parto mai battuto».

Due settimane fa la prima vittoria tra gli Under 23 a La Penna.

«Pioveva, tanto per cambiare ero all’attacco. Ho anticipato ad un paio di chilometri dall’arrivo e mi è andata bene. Una bella soddisfazione, tra gli juniores avevo vinto tre gare mentre tra i dilettanti ero ancora a secco. Peraltro vicino a casa, io vivo a Figline e Incisa, ora è un comune unico. Però non mi illudo: vincere è sempre bello, ma se voglio sperare di passare professionista devo continuare così, anzi meglio, cercando ottimi risultati nelle gare più importanti».

Come ad esempio?

«Io sono particolarmente affezionato ad alcune gare delle mie zone: su tutte il Giro del Valdarno, che considero il mio mondiale. Però è chiaro che una tappa al Giro d’Italia, ad esempio, farebbe aumentare notevolmente le mie chance di passare nella massima categoria. Io ci spero, anche se non è facile e sono al quarto anno tra gli Under 23. Intanto mi porto avanti anche con lo studio: Scienze Motorie, a Firenze, gli esami li ho finiti e conto di laurearmi a fine stagione, tra ottobre e novembre».

Ti ispiri a qualche fuggitivo in particolare?

«Come dicevo, i corridori tipo Nibali e Contador che attaccavano spesso e volentieri mi hanno sempre affascinato. Fuggitivi di professione, intendi? Per un periodo mi ero fissato con Thomas De Gendt, un maestro. Sarebbe bello, un domani, poter dire d’aver avuto una carriera simile».