Jonathan Milan: una vittoria di tappa, due secondi posti e attualmente la maglia ciclamino sulle spalle. Alessandro De Marchi: un successo soltanto accarezzato, qualche altra fuga in cui entrare sicuramente. Davide Bais: il trionfo a Campo Imperatore, il primo tra i professionisti, arrivato al termine di una fuga durata 215 chilometri e sei ore circa, in quella che probabilmente si può definire la giornata d’alta montagna più noiosa della storia recente del Giro d’Italia.
Questi tre corridori differiscono in tutto e per tutto: altezza e peso, pregi e difetti, caratteristiche ed età, squadra d’appartenenza e ruolo. A collegarli, a dare una parvenza di senso a quello che abbiamo visto in questa prima settimana di Giro d’Italia, la nazionalità e la fucina che li ha forgiati ancora adolescenti: quella del Cycling Team Friuli.
«Senza l’idea e il carisma di Roberto Bressan, oggi non saresti qui ad intervistarmi – racconta Renzo Boscolo, lo storico direttore sportivo dei friulani – Adesso la nostra realtà è sinonimo di serietà, di garanzia, di lungimiranza: una sorta di marchio doc, per così dire. Si è innescato un circolo virtuoso che a noi fa molto piacere e che, lo dico con umile consapevolezza, crediamo di meritare. Ma un tempo, diversi anni fa, non era così. E’ il mio rammarico più grande. Ci sono passati per le mani tanti buoni corridori che purtroppo non hanno raggiunto il professionismo. Perché? Perché eravamo agli inizi, perché dovevamo guadagnarci il nostro posto al sole, perché non ci conoscevano, perché noi stessi avevamo ancora bisogno di tempo per crescere e prendere le misure. Penso a Bolzan, a Marcolin, a Mattia De Marchi, cugino di Alessandro: hanno dovuto pagare lo scotto di essere i primi. Adesso, quando riusciamo a valorizzare un ragazzo che nelle categorie inferiori vinceva poco o nulla, ci dicono che siamo dei maestri. Dieci o quindici anni fa, al contrario, quasi non ci consideravano: tal dei tali ha vinto un paio di corse di secondo piano nell’Europa dell’Est, ci dicevano, dove volete che vada».
Da un po’ di tempo a questa parte, invece, siete considerati la più europea delle formazioni italiane. Perché?
«Intanto lasciami ringraziare tutti quegli addetti ai lavori che negli ultimi giorni si sono ricordati di noi: penso a Fondriest, a Basso, a Martinello. Da dove cominciare? Non ci siamo mai fatti frenare dalla tradizione, se così si può dire. Che l’Italia, per decenni, sia stata una vera e propria potenza, non vuol dire niente: nel frattempo è cambiato il mondo e sono saltati i confini, davvero si può imparare qualcosa da tutti e bisogna aggiornarsi in continuazione. A me non piace parlare degli altri, quindi mi limito alla nostra esperienza: noi studiamo, sperimentiamo, cambiamo. Questo sì».

Esiste una ricetta?
«Per come la vedo io, il nostro merito più grande è aver messo le persone giuste al posto giusto. Spesso e volentieri, con un denominatore comune: o il Friuli inteso come regione, o il Cycling Team Friuli inteso come squadra, come militanza. Siamo una famiglia, e non è una frase fatta: al Carpazia, ad esempio, avevo un meccanico e un fisioterapista che in passato hanno corso da noi. Ai nuovi ragazzi che ingaggiamo lo dico sempre: se oggi questa realtà è quel che è, è merito di tutti quei giovani che hanno indossato questa maglia prima di voi, anche quando era meno prestigioso farlo e non campeggiava la scritta Victorious che adesso testimonia la nostra forte collaborazione con la Bahrain».
Ma l’impressione è che ci sia qualcosa di più, Renzo: non siete l’unica realtà italiana che ha messo le persone giuste al posto giusto.
«Portiamo avanti da anni un approccio scientifico, quindi non approssimativo e tantomeno casuale. Appoggiandoci al Ctf Lab abbiamo sempre reputato importanti dati e numeri, senza tuttavia dimenticare la componente umana e tutti quei dettagli che fanno la differenza. Sono tanti, durante la stagione, i momenti di dialogo e di team building che organizziamo coi ragazzi. Parliamo con loro di alimentazione e preparazione, certo, ma anche di psicologia: ipotizziamo uno scenario di gara e poi chiediamo come si comporterebbero in quel frangente, ad esempio. Studiamo tanto, tra di noi ci confrontiamo sempre e guardiamo quello che fanno gli altri per capire se può tornarci utile o no: né più, né meno».

Alessandro De Marchi è stato il primo corridore che avete lanciato a certi livelli.
«Lo chiamiamo ancora il capitano, nonostante non corra più con noi da oltre dieci anni. Che dire, il dna del Cycling Team Friuli è il suo, non potevamo desiderare un ambasciatore migliore. E’ un ragazzo che ha fatto la gavetta, che non ha mai smesso di credere di potersi migliorare, che non si è mai lamentato di lavorare per gli altri e che non si è mai tirato indietro quando, invece, ha dovuto e potuto correre da capitano. La fuga dell’altro giorno? Secondo me ha fatto bene, lui e Clarke se la sono giocata al massimo delle loro possibilità in quel momento».
Lui sostiene che in futuro gli piacerebbe lavorare coi giovani: sarà uno dei vostri?
«Me lo auguro vivamente e credo proprio di sì. Non so ancora in che ruolo, ma abbiamo molti progetti in comune. Ti racconto un aneddoto. Anni fa eravamo a cena insieme e parlando del futuro gli dissi: sarebbe affascinante se l’ultima stagione della tua carriera la affrontassi con noi, tornando a partecipare a quelle gare che tanto tempo prima ti hanno lanciato. Un calendario da continental, insomma. Lui di questo se ne ricorda, ogni tanto ha citato l’episodio in qualche intervista. Sì, credo che quando smetterà sarà dei nostri: felicissimi di accoglierlo».
Tuttavia è Jonathan Milan il talento più importante che avete lanciato. Ti aspettavi un Giro d’Italia del genere da parte sua?
«Lo prepara Andrea Fusaz, uno dei fiori all’occhiello della nostra struttura. Sai, è impossibile predire cosa può succedere in gara, gli imprevisti e i rimescolamenti non si contano nemmeno. Ma sulla carta, diciamo numericamente parlando, eravamo consapevoli che Jonathan fosse in forma e che avrebbe potuto togliersi delle belle soddisfazioni. A me non piace fare paragoni, quindi non lo accosto a nessuno. Ma oltre alla sua potenza vorrei sottolineare un altro aspetto».

Prego.
«La costanza. Milan non è soltanto il giovane prodigio che ha azzeccato una volata a San Salvo, ma è anche il corridore che dopo una settimana di Giro indossa la maglia ciclamino perché è arrivato secondo pure a Salerno e a Napoli. Sono tre ottimi sprint nello spazio di cinque giorni. Ha tantissimi margini di crescita e non credo sia un velocista puro: quando si approda tra i professionisti i valori cambiano, è normale, ma ricordo un Milan che ad un Giro d’Italia Under 23 tirò per i primi quattro o cinque chilometri del Mortirolo. La scelta del rapporto agile in volata è sua, l’alta frequenza di pedalate deriva dalla sua attività su pista, ma visti i risultati che ottiene direi che ha ragione lui».
L’ultima gioia ve l’ha regalata ieri Davide Bais. Può ripercorrere le orme di De Marchi?
«Perché no? Anche Davide è un cosiddetto uomo-squadra, uno di quelli sempre disposti ad aiutare i propri capitani senza aprire bocca ma assolutamente in grado di prendersi le proprie responsabilità quando arriva il suo momento. Ha trovato la sua dimensione e ha il mestiere di De Marchi. Nelle categorie giovanili Bais non è mai stato un vincitore seriale, ma mi vengono in mente una marea di gare che ci ha fatto conquistare grazie al suo impegno e alla sua abnegazione. Un corridore vero, che ha fatto la gavetta. E un ragazzo d’oro, così come il fratello Mattia, cresciuti entrambi da una famiglia splendida. Sono davvero contento per loro».
