Pierantozzi: «Chioccioli mi ha insegnato la fatica, la Beltrami è stata l’unica a cercarmi»

Lucio Pierantozzi
Lucio Pierantozzi da quest'anno milita nella Beltrami-Tsa-Tre Colli
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«Allora – ragiona Lucio Pierantozziio l’anno scorso ho vinto quattro gare e non sono quasi mai uscito dai primi dieci. All’inizio di settembre, al Giro di Puglia, sono arrivato da solo lasciandomi alle spalle Busatto, la rivelazione della stagione passata, e De Pretto, che poi è stato convocato per i mondiali da Amadori. Buratti, il miglior dilettante italiano del 2022, ha chiuso nono. Non sarò un campione, sono il primo a riconoscerlo, ma è mai possibile che a ventiquattro anni e mezzo debba essere considerato irrecuperabile? La mia impressione è che le vittorie degli elite valgano poco agli occhi altrui, come se battere i più giovani fosse scontato: ma non sono mica più deboli di me soltanto perché hanno qualche anno in meno. Sarebbe come dire che per Valverde era tutto sommato semplice battere Pogacar o Evenepoel solo perché aveva il doppio degli anni: ma lo sport non funziona così».

Lucio, la tua stagione con la nuova maglia della Beltrami è cominciata alla Marsigliese: 100°.

«Ho commesso una leggerezza, facendomi sorprendere in fondo al gruppo all’inizio di una discesa: io me la cavo bene ma quelli davanti a me no, e quindi mi sono ritrovato a dover chiudere i buchi causati da loro. Peccato, ma è tutta esperienza. Ho voglia di ripagare la fiducia che mi è stata data: la Beltrami è l’unica squadra che mi ha cercato».

Che spiegazione ti sei dato?

«Intanto che in Italia una buona metà delle continental potrebbe anche non esserlo. Non cambierebbe nulla, tanto il calendario è lo stesso di una buona formazione dilettantistica tradizionale e agli elite non sono interessate. Magari la Beltrami raccoglierà qualche risultato in meno rispetto ad altre realtà, ma qua si fa l’attività come si deve: alla Marsigliese abbiamo corso coi professionisti, adesso stiamo aspettando una risposta dal Tour des Alpes Maritimes e a marzo abbiamo la Coppi e Bartali come appuntamento di cartello».

Nel 2021 e nel 2022, Lucio Pierantozzi ha corso nella Futura Team Rosini di Franco Chioccioli, in foto alla partenza della Firenze-Empoli 2022

Qual è l’aspetto che ti infastidisce di più?

«A volte mi viene da pensare che stiamo tutti perdendo tempo. Con tutti intendo noi della categoria Under 23 ed elite. Io ho ventiquattro anni e mezzo, un po’ d’esperienza e qualche bella affermazione nel palmarès: com’è possibile che mi scavalchino sempre degli juniores che hanno diciott’anni e pochissima esperienza complessiva, sia ciclistica che umana? Se la nostra categoria non serve più a niente, tanto vale sopprimerla. Ce ne faremo una ragione».

Ma alcuni juniores sembrano davvero già pronti per il professionismo.

«Hai detto bene: sembrano. Però penso: e se alcuni di loro vincessero soltanto perché fisicamente più sviluppati dei coetanei o perché si allenano come dei professionisti? Come reagiranno, così giovani, alle batoste che prenderanno tra i grandi? Che discorsi, qualcuno meritevole ci sarà senz’altro, non voglio dire di no. Ma che ce ne siano così tanti mi pare strano. Gira e rigira, gli enfant prodige che tra i professionisti si levano delle soddisfazioni sono sempre gli stessi. Ma ha senso snaturare un’intera concezione di questo sport per i risultati di una decina di corridori? E poi non sono i primi ad imporsi a vent’anni».

Cosa intendi?

«Che anche Sagan, per dire, alla stessa età vinceva alla Parigi-Nizza. Basterebbe avere un po’ di memoria. Un’altra cosa che non capisco è il criterio con cui scelgono questi ragazzi. Sai quanti miei coetanei trionfavano regolarmente tra juniores e dilettanti senza che nessuno li cercasse? Penso a Verza, che per continuare a inseguire il suo sogno è dovuto andare a correre in Austria. Oppure a Lucca, che ha trovato un contratto con la Bardiani solo dopo aver fatto sue una quindicina di corse tra 2021 e 2022. No, ci sono decisioni che proprio non riesco a comprendere».

Tu quando hai iniziato a credere di poter approdare nella massima categoria?

«Credo con Franco Chioccioli, col quale ho corso nelle due stagioni passate. E’ un uomo carismatico, per quanto non semplice di carattere. Gli piace avere l’ultima parola. Soltanto una volta l’ho sentito ricredersi nei miei confronti, dandomi ragione. Ad esempio, la mia loquacità la vedeva quasi come un difetto: parli troppo, mi diceva, non devi mica diventare amico o stare simpatico a tutti, tantomeno agli avversari. Però, ancor prima che atleticamente, mi ha plasmato caratterialmente».

In che modo?

«Intanto con alcuni allenamenti assurdi. Quando meno ci si aspettava, anche il giorno dopo una corsa, ci portava a fare cinque ora dietro macchina a ritmi elevati. Chi si staccava doveva tornare a casa da solo, ma era dannatamente lunga. E quindi si stringeva i denti. Non dovete scordarvi cos’è la fatica, ci ammoniva. E’ con lui che ho iniziato a credere in me stesso. Ricordo quando mi disse: non ti manca niente, sei te che pensi che ti manchi qualcosa. Da allora ho capito che nel ciclismo vince chi molla per ultimo: se le gambe fanno male a me, vedrai che fanno male anche agli altri».

Compagni di squadra ai tempi della Colpack, Pierantozzi è pronto a scommettere sul grande avvenire di Alessandro Covi, in foto al Lombardia della passata stagione

Sei approdato tra gli Under 23 nel 2017, sei anni fa. Hai qualche rimpianto?

«Probabilmente non sarei dovuto passare subito alla Colpack. La mia è una storia particolare. Praticamente nel 2017 e nel 2018 ho corso poco o nulla per una marea di problemi fisici, mononucleosi compresa, e per alcuni problemi familiari. Nel 2019, inevitabilmente, mi sono ritrovato a fare il gregario di Bagioli e Covi, un amico e un corridore sul quale sono pronto a scommettere ad occhi chiusi. La Colpack mi ha aspettato e non mi ha mai messo fretta, quindi non voglio mancare di rispetto a nessuno: dico soltanto che all’epoca feci il passo più lungo della gamba. Se avessi scelto una squadra più piccola, sarebbe stato meglio».

Di errori ne hai commessi?

«Sì, ho le mie colpe, devo essere sincero. Per un periodo sono stato fissato col peso: meno pesavo e meglio era, ovviamente mangiavo poco. E così ero sempre debole, non facevo in tempo a mettere massa muscolare che la bruciavo. Per quanto riguarda l’alimentazione facevo tutto da solo, da ignorante pensavo di essere in grado. Poi, fortunatamente, un giorno mi sono detto: ma se ci sono persone che si laureano in questo campo qualcosa vorrà pur dire o no?».

Dove ti piacerebbe metterti in mostra quest’anno?

«Innanzitutto nella Coppi e Bartali, una corsa impegnativa adatta alle mie caratteristiche e una gara a cui tengono i nostri sponsor. Poi penso alle classiche italiane di fine stagione, ma manca ancora troppo tempo per pensarci seriamente. Sognando in grande, sarebbe magnifico conquistare una tappa della Tirreno-Adriatico: perché no, magari proprio quella di San Benedetto del Tronto, il comune in cui vivo».

Ma la corsa dei sogni qual è?

«La Liegi-Bastogne-Liegi. Mi sono appassionato definitivamente al ciclismo vedendo alla televisione Gilbert che batteva gli Schleck proprio su quel traguardo e nella sua stagione d’oro. Quindi quella classica e il belga hanno un posto speciale nel mio cuore. Tra l’altro di Gilbert ho le misure: sono alto 1,78 come lui e peso 62 chili, forse era leggermente più robusto di me. Quei percorsi vallonati e impegnativi, in cui c’è da rilanciare l’azione, mi si addicono. Per il resto, che dire? Un giorno spero di avere l’opportunità di partecipare a corse del genere».