Silenzio, Moser è in fuga e mancano 20 chilometri a Roubaix

Moser
Francesco Moser in fuga verso il velodromo di Roubaix
Tempo di lettura: 6 minuti

Come regalo di Natale per le lettrici e i lettori di Bicisport e nello stesso tempo come ricordo di Mario Sconcerti, che ha contribuito con Sergio Neri alla nascita di Bicisport, vi proponiamo il primo capitolo del libro scritto da Sconcerti per Compagnia Editoriale, per la collana Le avventure straordinarie, dal titolo «Con Moser da Parigi a Roubaix – Racconto di un fantastico viaggio sulle pietre dell’inferno (1978)». Buona letttura.


E’ solo. lo vedo di colpo, voltandomi indietro, nel lunotto infangato dell’auto. Scivola violento duecento metri più indietro. Picchia sui pedali con voluttà. Dietro gli oscilla la macchina del direttore di corsa. Va avanti a balzi, sospinto dalla sua cattiveria tra l’erba e le pietre. Dico «silenzio» ai miei compagni di viaggio che parlano leggeri come un miagolio in amore. Radio-corsa conferma: «Moser tutto solo».

Cristo, Francesco, non mollare. Mancano venti chilometri a Roubaix.

Troppo presto, dice il mio compagno fianco-destra.

Troppo presto… Non rispondo, mi butto lungo disteso per quanto c’entro nel retro della macchina. Non ci sono, scompaio; non disturbatemi, Moser da solo. Mancano diciannove chilometri. La radio dice che ad inseguire sono rimasti soltanto in tre, ma Maertens, Raas e De Vlaeminck. Uno è dei nostri, Francesco. Non può smentirsi proprio adesso, davanti alle televisioni di tutto il mondo.

Troppo presto, dice l’autista.

Eppure Roubaix è vicina. Ne sento il puzzo tra gli spruzzi di fango che le moto alzano. Vedo le montagne di carbone appollaiate rancide e tetre ai bordi della strada. Sembra una visione di guerra. La strada è una sporca mulattiera. L’auto vi passa a malapena. Al centro ha una gobba continua. La terra con la pioggia ha finito lentamente per cedere sotto il peso dei carri bestiame. Anche le case sono poche, rarefatte e impalpabili come dietro una nuvola. Le vedo tra gli schizzi, in soggezione d’allegria, disabituate alla gente. Davanti un mare d’erba rigato da questa strana corsia di piccole pietre, sconnesse, appuntite, disperse con rabbia, la stessa rabbia che devono aver avuto nel piantarle, probabilmente in un giorno di pioggia e di vento, col freddo che mozzava le mani. Come sempre quassù fino ad aprile inoltrato.

Ho visto le moto di due fotografi ondeggiare, piegarsi e crollare a terra senza nessuna ispirazione, soltanto spinte da quell’asfalto impossibile, leggero e viscido come un manto di ghiaccio. Ho visto l’auto di un quotidiano belga uscire di strada, se questa è una strada, travolgere persone e fermarsi in mezzo al campo, solo per aver dovuto accelerare di scatto. Noi stessi, una quarantina di chilometri fa, con Kuiper alle spalle, nella medesima situazione, accelerando ci siamo trovati di colpo ad angolo retto col tracciato e ad angolo retto continuavamo ad andare strappando decine di piccoli fiori gialli. Mentre radio-corsa continuava a ripetere i nomi dei corridori caduti e mai rientrati. Questo soprattutto mi aveva colpito. In ogni corsa se sei nel gruppo di testa e fori o cadi, puoi riuscire a rientrare. Paghi molto in fatica, ma hai otto probabilità su dieci di rientrare, se non c’è bagarre. Qui no. Chi cade si esclude, non si sente più. E’ un’eliminazione naturale e continua. Eppure non c’è bagarre, non quella tradizionale almeno. I corridori vanno avanti come spingessero una grande pietra, lentamente, pesantemente. Di tanto in tanto c’è quello che cade, si allunga, tende le braccia, poi scompare. Qui negli angoli di spazio rubati alle curve ho visto il gruppo sgranarsi, affilarsi, impallidire senza che apparentemente nessuno scattasse. Bastava solo che chi stava in testa tirasse a tutta. Il resto lo facevano la strada, le pietre, la crudeltà di questo paesaggio che non ammetteva la fantasia di un riposo. In fondo era un braccio di ferro collettivo, una prova di forza.

Il francese fianco-destra diceva che questo non era ciclismo. Forse aveva ragione. Non è ciclismo, però è splendido che tutto questo se lo sia preso il ciclismo. Passiamo la vita a rimpiangere qualcosa del passato che è sempre regolarmente migliore di quello che abbiamo. Questo è un passato che resiste, non ha dimensioni, è una tortura volontaria ma vince sempre il più forte. La fatica ha dei diritti. Paga sinceramente.

Con Moser da Parigi a Roubaix: il libro di Mario Sconcerti pubblicato da Compagnia Editoriale

La radio non dice più niente. Vuol dire che Moser è sempre in testa da solo.

Ma vuol dire anche che non ha guadagnato, dice quello seduto accanto all’autista.

Diciotto chilometri all’arrivo. Sbuchiamo dietro una curva, in fondo a un rettilineo lunghissimo. Possiamo vedere circa un chilometro di strada. Vedo le meraviglie, vedo le moto… Ecco Moser. E’ piccolo, si perde, non si distinguono i colpi di pedale, è una massa lieve che avanza sull’orizzonte. Il sole sta abbassandosi. Moser scivola su una riga di un giallo che va facendosi di minuto in minuto più forte mentre gli alberi adesso si disegnano netti.

Ecco gli altri. Avranno duecento metri di distacco. Tira Maertens, gobbo sul manubrio, sembra una talpa scura così ondeggiante lungo i bordi della strada. Forse è la fatica, forse sta solo cercando di schivare le pietre. Ne affiorano alcune improvvise tra i ciuffi d’erba. Le vedi quando ci batti e la ruota si apre come un’anguria.

Dietro ancora nessuno. Tira anche Raas. Sembra più disinvolto, ma è pesante anche lui. Solo de Vlaeminck naviga in coda quasi estraneo alla fatica, quella comune di piccola disperazione che va ogni metro allargandosi. Ma ancora si vedono, fuggitivo e inseguitori. Finché c’è vista c’è paura. La sagoma davanti è come il gioco della lepre per i levrieri. Questo cinodromo scollato e fangoso ha una pista, infame, ma i principii resistono.

Moser da solo, ripete la radio.

E forse ormai non è più troppo presto.

Quindici chilometri al traguardo. Moser ci passa davanti in questo momento. Guardo l’orologio, fermo idealmente i secondi. Conto piano come da ragazzo a scuola quando cercavo di scoprirmi la febbre sentendomi il polso. Venti, ventidue, venticinque, trenta, trentuno, trentatre… ecco Maertens, ecco gli altri. Saranno una trentina di secondi almeno.

Quarantuno, risponde radio-corsa quasi mi stesse ascoltando.

Quarantuno… Al francese fianco-destra sembrano un’eternità.

Ce la fa -, dice adesso, ma non mi fido.

Quarantuno secondi… E se cade? Se gli viene una crisi adesso? In fondo pedala da duecentoquarantacinque chilometri. Che ne sappiamo noi della forza di un corridore, del suo pieno, della sua riserva? Mangia Francesco, ti prego, mangia qualcosa. Basta uno zuccherino, a volte, come dice Falai. Ricordati del medico.

Lo superiamo su un tratto di strada buona, tra un piccolo alone di case. Lo guardo, spero mi veda, dicono che a volte un gesto serva, aiuti.

Niente. Guarda in avanti con una smorfia che non è fatica. E’ cattiveria.

Francesco Moser vola sulle pietre della Roubaix

Sembra magro, tirato, sconvolto. La faccia è coperta di fango, la maglia non lascia più un momento di bianco. Solo le strisce dell’iride si salvano per quel tanto di forte che si portano dietro. Le gambe sono scomparse sotto incrostazioni ormai antiche. La mota deve aver cominciato ad attaccarglisi alla pelle fin dai primi chilometri di corsa. Adesso gli strati sono solidi e massicci. Di tanto in tanto sotto il colpo di pedale qualche pezzo gli cade dalle gambe andando a frantumarsi lontano. Non andranno a Roubaix con lui quei frammenti. In mezzo a quella selva ambulante che sembra, si distinguono gli occhi. Sono fissi e spietati, sembrano liberargli la strada di incanto come fari antinebbia.

Ce la fa, non può cadere. Non se ne ha la minima voglia. Ha una grinta così spaventosa che sembra messa apposta di guardia a qualunque tentazione di fatica.

Dieci chilometri. Radio-corsa dice: «un minuto di vantaggio».

L’autista dice che è meglio incamminarsi verso il traguardo. Mi rifiuto di istinto, ma con violenza improvvisa da convincerli. Però non posso resistere molto. Sono loro ospite su questa macchina nera di fango e ammaccata dagli sbandamenti contro il filo spinato. Ma non vorrei andarmene. Tenendoti sott’occhio mi sembra di aiutarti, Francesco. Forse stiamo diventando tutti pazzi. In Italia c’è lo sfacelo, lo sai vero? Le Brigate Rosse hanno dato l’ultimatum per Moro, ieri notte due treni si sono scontrati tra Bologna e Firenze. E’ stato un massacro. E noi siamo qui coperti di sporco, gocciolanti e infreddoliti a maniacare su qualcosa che pure sentiamo grande. Cristo, però quanta vita c’è in questo pomeriggio che mi regali. Otto chilometri.

Non posso restare. E’ la legge, lo sai. Ma hai vinto, Francesco. Un minuto e dieci. Ormai è così, aumenterà sempre il vantaggio. Stiamo facendo un po’ di leggenda oggi, tra queste cascate di carbone.

Eppure era tutto cominciato male in questa trasferta di itinerari malinconici.