Morte Rebellin / La moglie racconta: «Ha perso tutto quello che ha avuto. E le squadre non lo pagavano»

Fanfan Antonini e Davide Rebellin
Davide Rebellin insieme a sua moglie Fanfan Antonini (foto: Antonini, Facebook)
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«Il mio Davide, un uomo in fuga», è il titolo della lunga intervista a Fanfan Antonini, seconda moglie di Davide Rebellin, uscita sul settimanale Oggi, in edicola da questa mattina. Il racconto della signora Antonini restituisce una storia amara, dolorosa, da prima che un investimento fatale travolgesse il suo Davide su quella rotonda. E racconta come fosse la bicicletta l’unica medicina per Davide. «Passava più tempo in bici che con me, ma sapevo che la bicicletta era il suo ossigeno e non avevo scelta: non avrei potuto
togliergliela, ne aveva bisogno».

Fanfan dice che Rebellin continuava ad allenarsi tutti i giorni, tranne quello di Natale. «Per il resto dell’anno pedalava tutta la giornata. Sei, sette ore e anche di più, e poi la palestra. Più si va avanti con l’età e più bisogna allenarsi, mi diceva. In dieci anni non abbiamo mai fatto un weekend o una vacanza insieme, la bici era la sua vita. Ora che la sua carriera era finita, cominciavamo a fare i primi progetti insieme». Stavano pensando di andare in primavera in Corsica, dove vive il padre di lei, che non aveva mai conosciuto Davide. Poi su quella rotonda tutto si è spezzato, anche i progetti. I problemi economici, seguiti alle cause (quella per doping, quella di divorzio e quella con l’Agenzia delle Entrate), erano onnipresenti.

«Per difendersi Davide ha dovuto pagare tanti avvocati, ha perso tutto quello che ha avuto e anche di più, perché di soldi non ne guadagnava. Le squadre lo facevano gareggiare senza pagarlo (a tale proposito la società Work Service ha precisato che Rebellin aveva un regolare contratto che prevedeva un compenso sempre regolarmente onorato, ndr). Vivevamo con quello che avevamo, lui non aveva uno stipendio o una pensione, e io non lavoravo. Andava in bici così tanto anche per lasciarsi dietro tutta questa realtà pesante. Era l’unico modo che aveva per liberarsi e trovare pace». Era tornato in Veneto a trovare la famiglia d’origine, ma non soltanto per questo.

«Il giorno in cui è partito sentivo che era molto preoccupato. Ma ho saputo solo dopo la sua morte che era andato a incontrare i suoi avvocati, perché aveva perso il ricorso nella causa con l’Agenzia delle Entrate. Me l’aveva nascosto. Nel 2015 aveva vinto il primo grado e pensavamo fosse finita, ma non era così. “Vedrai ci vorrà del tempo, ma vinceremo, abbiamo le prove”, mi ripeteva. Aveva portato i testimoni, tutti vedevano che viveva a Montecarlo, non riusciva a capire perché avesse perso. La mattina in cui è stato investito, era andato in banca perché non aveva più soldi sul conto e aveva bisogno di un prestito. Mio marito è stato trattato ingiustamente fino alla fine, e anche la sua morte è stata orribile e ingiusta».