Rosola non ci sta: «All’estero ci rifiutano e la ricchezza delle development ci schiaccia»

Paolo Rosola alla partenza della quinta tappa del Giro d'Italia U23 2022
Tempo di lettura: 8 minuti

«Quando si entra in un ambiente nuovo, di qualunque livello esso sia, si deve farlo sempre in punta di piedi. Con la massima umiltà e disponibilità per imparare il più possibile». È stato sempre questo l’approccio di Paolo Rosola alle sue mille esperienze, prima di tutto da atleta professionista su ogni terreno: strada, pista, il fango del ciclocross e le pietre della mountain bike. Poi nello staff tecnico della Gewiss, dopodiché da allenatore e manager, nonché marito, di Paola Pezzo, due volte campionessa olimpica e mondiale nella mtb, specialità cross country.

E non è finita qui perché Rosola nel 2015 diventa uno dei direttori sportivi della Gazprom-RusVelo, occupandosi anche del vivaio della formazione russa. Quando quest’ultima viene sospesa dall’UCI a febbraio a causa dell’invasione russa ai danni dell’Ucraina, Rosola deve reinventarsi. E lo fa, sempre a modo suo, con il massimo dell’entusiasmo e pronto ad apprendere la nuova materia come un alunno volenteroso al primo giorno di scuola. Ma non deve essere stata certo una passeggiata…

Paolo, da sette anni eri un direttore della Gazprom-RusVelo, dove si stava costruendo un progetto importante con particolare attenzione anche verso i giovani. Deve essere stato davvero un brutto colpo lasciare tutto all’improvviso per cause esterne…

«Sì, ci siamo dovuti bloccare all’improvviso e proprio quando stavamo raggiungendo gli obiettivi che ci eravamo prefissati da anni. Purtroppo siamo stati penalizzati dalla situazione che tutti conosciamo e non ce l’aspettavamo di essere coinvolti in discorsi politici. Dispiace parecchio perché per il 2023 e il 2024 c’erano in ballo progetti ancora più ampi».

In questi ultimi mesi l’UCI non sembra aver dato delle novità riguardo la sospensione della squadra russa. Anche se ora sulla carta ne sei fuori, sei venuto a conoscenza di qualche aggiornamento?

«La questione è essenzialmente burocratica e la sta portando avanti il team manager (Dmitri Sedoun, ndr), con il quale sono in contatto. Anche questa mattina ci siamo confrontati e si è sempre in attesa di risposte da parte dell’UCI. L’ambiente si è già smobilitato, visto che senza un ritorno bisognava tutti subito correre ai ripari. Da sessanta persone sono rimasti in tre».

Quindi la struttura è crollata…

«In parte sì, ma in ogni caso ci hanno tagliato le gambe. Era stata messa in piedi una struttura molto grande, vicina a quella di una squadra World Tour. Quindi l’obiettivo era quello di entrare nel massimo circuito e già per la prossima stagione poteva esserci l’occasione… Ma adesso, riprendendo la metafora precedente, non è che ci sono venuti i crampi e possiamo riprendere: le gambe ci sono state proprio tagliate. Per fortuna io personalmente ho avuto l’occasione per ripartire».

Parli della nuova avventura in General Store?

«No, prima, a maggio, ho avuto l’opportunità di fare il motociclista con RCS al Giro d’Italia. È stata una grande possibilità e in quel periodo lì mi sono disintossicato dalle incognite del caso Gazprom. E devo ringraziare soprattutto gli altri motociclisti delle staffette perché mi hanno accolto bene».

L’ennesima esperienza nel mondo del ciclismo per te.

«Sì, considerando che sono stato un ciclista professionista in tante specialità, poi un direttore sportivo, un allenatore nella mountain bike. Far parte delle staffette in corsa mi ha permesso di conoscere meglio l’ambito della sicurezza nelle gare. Perché quando si è in un ruolo non conosci quello degli altri e ora ho ben capito che bisogna dire un grande grazie ai motociclisti, perché sono degli angeli che vigilano sulla sicurezza dei ragazzi».

Paolo Rosola alla guida di una delle motostaffette di RCS durante l’ultimo Giro d’Italia

Sicuramente è stata un’esperienza formativa. Poi praticamente sei passato dal Giro dei professionisti in moto al Giro Under 23 in ammiraglia…

«Sì, proprio a maggio durante il Giro vissuto con RCS mi è arrivata la telefonata della General Store».

Immagino sia stata una bella boccata d’aria. Com’è arrivata quest’offerta? Essendo della stessa zona tu eri già confrontato con loro in passato?

«Sapevo che erano qui vicino, li trovavo in allenamento. Mi avevano anche cercato in passato, ma facendo già parte della Gazprom sono rimasto sempre concentrato su tutto quello che c’era da fare lì. Li ho comunque sempre seguiti perché in Gazprom avevamo la squadra Under 23 e vedevo questa formazione che era organizzata come una continental. Poi a me i giovani piacciono e allora quando mi hanno dato questa possibilità l’ho colta al volo».

L’impatto al Giro come è stato? Immagino sia stata subito una buona occasione per stringere un rapporto con i ragazzi, che in questi mesi sarà diventato più stretto, e per raccogliere il lavoro di Giorgio Furlan che era da tanti anni lì.

«Nonostante tutte le mie esperienze passate, nella General Store sono entrato in punta di piedi per capire la situazione, quali sono i problemi e dove si può migliorare. Questo ovviamente senza nulla togliere ai miei predecessori che hanno lavorato nel modo giusto e lo dicono le vittorie. Non ho mai lavorato a pieno in una squadra Under 23 e inizialmente ho fatto fatica a mettere in atto le mie strategie, ma adesso pian piano ci sono riuscito. Ora molti andranno via e ci sarà da costruire un nuovo gruppo. Questo mi dà stimoli».

Che ciclismo giovanile italiano hai trovato, è quello che ti immaginavi?

«Rispondo soffermandomi su un punto in particolare. Sento tutti, compresi i ragazzi, esaltare le squadre estere di sviluppo delle World Tour e affossare quelle italiane. Vorrei dire che anche in Italia non manca la buona volontà per poter crescere. Non bisogna guardare solo i risultati, ma capire anche le possibilità di ogni squadra e quanti sacrifici vengono fatti nelle continental italiane. Capire quante persone lavorano e non hanno quelle soddisfazioni che si possono avere in una formazione development, ma continuano ad impegnarsi tanto. Alla fine noi siamo penalizzati un po’ da quest’ultime perché tutti i ragazzi hanno il desiderio di andare lì, soprattutto per disputare gare estere. Ma alla fine non è la gara all’estero in sé che ti porta a essere più forte. Sì, è una bella esperienza, ma quante gare internazionali ci sono all’estero per le continental Under 23? Poche. In Italia, invece, quante ce ne sono? Tante. E perché gli stranieri vengono tutti qui a disputarle?».

Il dibattito basato sul confronto tra le squadre italiane e quelle estere Under 23 si è acceso durante il Giro d’Italia della categoria, dove è saltato fuori un netto divario tra i nostri giovani corridori e quelli stranieri nella gestione e nel rendimento di una corsa a tappe. Non aiuterebbe i nostri corridori disputarne di più e all’estero?

«Sì, ma c’è un problema. Io con la General Store sto facendo diverse richieste per partecipare a gare all’estero, ma non abbiamo la possibilità di partecipare perché ci rifiutano, non ci considerano. E so che succede anche ad altre squadre».

Vuoi dire che veniamo snobbati?

«Esattamente. Quando noi però le squadre francesi, belghe, olandesi le accogliamo a braccia aperte e ci mancherebbe altro. Ma sai forse qual è il problema? Che alla fine arriva la squadra con le macchine della World Tour e invece io arrivo con la macchina dove c’è scritto General Store, un nome di certo non blasonato. Poi così è normale che tutti vorrebbero essere con loro e infatti finiscono per portaci via corridori italiani che potrebbero trovare delle realtà diverse per fare il salto nel professionismo. Anche perché alla fine quanti ne passano? Pochi».

Quindi per te il divario tra corridori italiani ed esteri sta nel fatto che questi ultimi fanno parte soprattutto di squadre associate alle World Tour. Di conseguenza dai ragione a chi dice che la radice del male sta nell’assenza di una World Tour italiana?

«Quello è uno svantaggio ma io non do la colpa neanche al fatto che ci manchi una World Tour. Anche perché il 30/40% dello staff delle World Tour tra direttori sportivi, manager, meccanici, massaggiatori è italiano, però non avendo una nostra squadra combattiamo contro i mulini al vento. Ma quello che evidenziavo prima è un problema che vale anche da noi. Mettiamo che una World Tour deve venire a fare la Coppi e Bartali e magari è impegnata in altre gare più blasonate o di preparazione e allora ci manda la sua formazione development. L’organizzatore chi prende? Preferisce la continental blasonata o una delle tante italiane? Quella blasonata a discapito degli sponsor italiani che spendono soldi…».

Paolo Rosola con suo figlio Kevic Pezzo Rosola ai campionati italiani di mountain bike del 2020. Ora Kevin corre con la Tirol KTM Cycling Team

Quando sei entrato in General Store che ambiente tecnico hai trovato? La fatica, di cui parlavi prima, nell’attuare le tue strategie consiste in una difficoltà nell’importare le metodologie del professionismo tra gli Under 23?

«In General Store il comune denominatore è la passione. Oggi la tecnologia va avanti, qui siamo rimasti un po’ indietro, e quindi il mio grande lavoro è costruire una nuova base tecnica per fare in modo che i ragazzi abbiano tutto, ma senza stravolgere il sistema che sto imparando a conoscere. Parlo soprattutto della preparazione, che dà la garanzia a loro. Su questo lato si deve rifondare tutto e abbiamo le risorse economiche per farlo. Ciò vuol dire creare tante cose che c’erano in Gazprom e qui non ci sono, ma la differenza è che va fatto con un budget limitato rispetto a quello di una Professional di valore. Ma oltre a curare la struttura tecnica, devo saper seguire anche i ragazzi, uno ad uno e provare a risolvere alcune problematiche».

Spiegaci meglio.

«Si tratta di problemi generali del dilettantismo italiano. Ad esempio ho notato subito che questi ragazzi quando passano da Juniores ad Under 23 vengono un po’ persi perché magari in alcune squadre ci sono quelli con più anni da dilettante a cui la squadra dà la priorità in tutto. Quindi chi è appena passato se non viene seguito, fatto entrare in un progetto dedicato, diventa difficile per lui. Perché ogni ragazzo ha il suo percorso di crescita e va interpretato da chi li segue. Se si trova un ragazzo che è sempre un piazzato bisogna capire come si può portare a migliorarlo. E infine c’è anche un altro problema: le scuole. Fino a giugno i ragazzi non ce li hai. Ce li hai se costruisci un progetto, se organizzi provando a incastrare gli orari di tutti. Questo ci porta anche a scegliere corridori vicini alla sede della squadra».

Quindi dici che nelle squadre Under 23 si è creata la stessa struttura interna delle squadre professionistiche? Dove chi è appena passato e non vince subito finisce per mettersi a disposizione degli altri non ottenendo il proprio spazio personale per crescere. E se questo succede tra i dilettanti aumentano le probabilità di avere meno nuovi professionisti.

«Esatto, alcuni vengono trascurati e si ritrovano senza una base. Ripeto che nelle nostre continental c’è tanta brava gente a lavorare, ma mancano le basi economiche e ci si attacca quindi al risultato seguendo chi può darlo nell’immediato. A differenza delle formazioni development straniere dove hanno già una struttura ereditata dalla World Tour. E quindi loro investono su altri aspetti, vanno a prendersi i corridori più forti».

Cosa pensi dei tuoi corridori? Francesco Busatto è quello più in mostra in questa stagione e non a caso è stato convocato al Mondiale da Amadori, senza poi però far parte del quintetto schierato nella prova in linea. Samuele Carpene è un grosso talento inespresso?

«Di Busatto e della sua esclusione mondiale non voglio parlarne, ma lo farò quando sarà il momento giusto e in modo approfondito. Carpene è un fenomeno, che secondo me è stato sfortunato. Non per colpa di chi l’ha gestito prima, ma in parte per la sua mentalità. Purtroppo nessuno è riuscito a capirlo. Io sono arrivato tardi, ma credo che resterà qui e cercherò di tirargli fuori tutto il potenziale che lui ha. Non voglio dire che Busatto deve ringraziare lui ma sicuramente se Francesco è andato al Mondiale è anche merito suo. Lui è la sua spalla ed è molto generoso. Samuele lavora, si finisce per gli altri e non pensa a se stesso. Dovevi sentire cosa diceva per radio prima di vincere il Trofeo Gavardo a metà luglio, l’unica sua vittoria stagionale. Che lui voleva tirare la volata a Palomba e invece io gli ho detto: tu devi vincere punto e basta».

Per concludere, da corridore eri chiamato cavallo pazzo. «Cavallo pazzo perché non ho mai seguito le regole dell’atleta, perché in me c’erano dei meccanismi nemici della concentrazione, tali da limitare il rendimento» hai dichiarato tempo fa. Con qualcuno dei tuoi corridori ne hai mai parlato?

«Quando si avanza d’età si capiscono gli sbagli che si sono fatti. Poi certo che parlando con loro, ridendo e scherzando, racconto le mie avventure che in realtà non dovrei nemmeno raccontare. Ma lo faccio per restare in sintonia con loro e alla fine dico sempre che io ho sbagliato e loro non devono farlo perché hanno un futuro davanti, anche se non ci pensano, come non ci pensavo io».