Compie 120 anni il mito Binda, pagato per non correre. Da tecnico dominò il Tour, “spegnendo” il dualismo Coppi-Bartali

Binda
Alfredo Binda con la sua prima maglia di Campione del Mondo conquistata nel 1927 ad Adenau
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Di lui è arcinoto il paradosso: pagato per non correre. E non si tratta di leggenda: Alfredo Binda, di cui ricorrono i 120 anni dalla nascita, fu escluso dal Giro d’Italia del 1930 per “manifesta superiorità”.

Una cosa incomprensibile alla luce delle logiche odierne, nelle quali il supercampione viene ricoperto d’oro per esserci, non per disertare. Ma all’epoca il direttore della Gazzetta dello Sport, Emilio Colombo, temeva seriamente che con Binda in corsa l’interesse per il Giro d’Italia sarebbe precipitato. Nel 1927 si era preso 12 tappe su 15, nel 1929 erano state 8 su 14. E la gente si era stancata di un monologo così scontato, tanto che spesso sul vincitore all’arrivo piovevano fischi.

«A quel Giro noi della Legnano non fummo invitati – ricordò Binda nel 1964 al microfono di Bruno Raschi – e io andai a protestare dagli organizzatori per una decisione che non trovavo giusta. Colombo mi disse che se avessi corso il Giro lo avrei rovinato. Allora chiesi che mi fosse pagato almeno un risarcimento. Lui si mise d’accordo con Emilio Bozzi direttore della Legnano e presi 22.500 lire (impiegate per comprare una casa a Milano, ndr)».

Stuccatore a Nizza, l’Italia lo scoprì al Lombardia del 1924

Nato nel 1902 nel comune varesino di Cittiglio, il futuro “Campionissimo” si trasferì a nemmeno vent’anni da uno zio di Nizza e imparò a fare lo stuccatore. Il bivio arrivò presto: continuare con il mestiere o darsi alla bici in modo serio? La risposta arrivò nella Nizza-Mont Chauve del 1923, 16 chilometri tutti in salita nei quali batté nientemeno che il trentenne Girardengo, stella polare del ciclismo europeo.

La gloria italiana arrivò nel Lombardia del 1924, quando transitò per primo sul Ghisallo, incassando 500 lire che gli consentirono di coprire i costi della spedizione. Il quarto posto finale gli bastò per indurre il mitologico Eberardo Pavesi a metterlo sotto contratto con la Legnano, che sarebbe rimasta la sua unica squadra fino a fine carriera.

Girardengo, pur avanti con gli anni, rimaneva un fuoriclasse; Binda cresceva con una rapidità vertiginosa. La grande rivalità era servita, anche se i due avevano approcci diversi: il “Gira”, nato a Novi, metteva in cima a tutto la Milano-Sanremo, che vinse sei volte. Binda (pur riuscendo a conquistare la Classicissima in due edizioni), dava la priorità al Giro d’Italia (cinque trionfi) e poi puntava dritto al mondiale (tre maglie iridate).

La rivalità con Girardengo: nel 1928 squalificati entrambi

L’apice del dualismo si registrò nel 1928: alla Sanremo, Binda credeva di avere la vittoria in pugno dopo un numero sul Capo Berta. Ma in vista del traguardo sentì l’ombra di Girardengo, che malgrado i 35 anni in volata era ancora intrattabile, tanto da vincere con due bici di vantaggio. Qualche mese dopo, ai mondiali di Budapest, i due rimasero a guardarsi mentre la corsa andava. «Ora tira tu», disse il Gira. «No, perché poi se mi vedi stanco mi attacchi», rispose Binda. «E allora io mi fermo». «Bene, mi fermo anch’io». L’Unione Velocipedistica (la federazione di allora) squalificò entrambi per sei mesi, poi ridotti a uno, «per non aver difeso con fede e volontà il prestigio dello sport ciclistico italiano impegnato nella più importante competizione».

Prudente e calcolatore, sempre composto anche nei tratti più duri, agli eccezionali mezzi atletici Binda univa ragionamento e freddezza, che gli consentivano una saggia amministrazione delle forze. Un indole da corridore moderno che all’epoca veniva talvolta bollata come opportunismo. Alieno da sregolatezze, badò al sodo, gestendo in maniera oculata guadagni che i suoi colleghi potevano solo sognare. Alla vigilia del primo mondiale della storia, quello che si corse nel 1927 al Nürburgring, strappò a un imprenditore tedesco un superpremio di 120 mila lire nel caso avesse vinto montando il mozzo Torpedo, che consentiva di frenare contropedalando. Dopo il successo iridato, divise la somma con gli altri tre italiani in squadra e con la sua parte comprò una Fiat 509 fuori serie, che costava 31 mila lire.

Lombardia: l’attacco a Bottecchia e la leggenda delle uova

Giro d’Italia, mondiali, ma anche Giro di Lombardia, che si correva sulle sue strade. Lo vinse quattro volte (solo Coppi è arrivato a cinque). Epica l’edizione del 1926, flagellata dalla burrasca. In quell’occasione il duello fu con Ottavio Bottecchia, fresco della gloria ricavata dai due successi al Tour. «Faceva di tutto per staccarmi – ricordò Binda – allora a metà del Ghisallo una botta la diedi io». Nessuno lo rivide più, fino al traguardo, dove arrivò con mezz’ora di vantaggio, dopo un assolo di 150 chilometri, una delle imprese più straordinarie della storia del pedale.

Quel giorno nacque anche il mito delle uova: «Ne bevvi 28, perché in un fuga le uova sono più facili da mangiare rispetto a un panino. Le picchiavo sul manubrio e via. Ne avevo già in tasca alcune prima di partire. Le altre le presi ai rifornimenti di Como e Grantola. Venivano dalle galline che avevamo a Cittiglio». Su questa storia, il Campionissimo si divertiva: «Una volta, ad una cena di inizio anni Ottanta – ha ricordato Beppe Conti – mi disse: “Sai, quando vado avanti con questi racconti ogni tanto aggiungo un uovo”».

Uno così, quanti Tour de France poteva vincere? In teoria molti, in pratica nemmeno uno, perché non era nei suoi programmi. L’unico lo corse nel 1930, quando gli impedirono di fare il Giro. Chiese un super ingaggio per farsi dire di no, ma lo accontentarono e dovette andare. Ebbe un giorno nero che lo allontanò dai vertici, così si mise ad aiutare la maglia gialla Learco Guerra, altro suo grandissimo rivale. Nel tappone pirenaico di Luchon, con Aubisque e Tourmalet, cercò di proteggere Guerra per quanto possibile, poi avviò una clamorosa rimonta solitaria, fino alla vittoria. Con tante tappe ancora a disposizione, quel Tour avrebbe potuto vincerlo, ma lui aveva idee e piani diversi, così se ne andò comunque, senza alcuna voglia di ritornare.

Maestro di diplomazia, nel 1949 “disinnescò” Coppi

Vedi il destino, proprio il Tour lo consacrò tecnico epocale, nel dopoguerra. Lo vinse con Bartali nel 1948, con Coppi nel 1949 e 1952, con Nencini nel 1960. Il suo capolavoro fu l’edizione del 1949, nel quale si trovò a gestire le bizze di Coppi e l’aspra rivalità con Bartali (il quale negli anni successivi si lamentò più volte di essere stato “fermato” dal tecnico). La patata più bollente arrivò nella tappa di Saint-Malò quando Coppi, in fuga con un gruppetto, cadde rompendo la bici. Rifiutato un mezzo di ricambio perché non suo, Fausto rimase stizzito sul ciglio della strada fino all’arrivo di Binda, poi ripartì controvoglia, deciso a mettere fine alla sua avventura francese. Raccontano che agli incitamenti di Binda, Coppi gli ricordò crudamente che anche lui quasi vent’anni prima aveva abbandonato il Tour. E che il tecnico gli rispose: «È vero, Fausto, ma ne porto il rammarico ancora oggi».

La sera, nell’albergo di Paramé, sul mare della Bretagna, andò in scena una pièce a tinte forti. Coppi, a oltre 36 minuti dalla maglia gialla, aveva già le valigie pronte. Binda gestì la situazione con la consueta ars diplomatica, lasciando che attorno a Fausto si mettesse in moto una preghiera collettiva, alla quale si unì perfino Jacques Goddet, il patron del Tour, giunto in albergo per scongiurare il ritiro.

Finché, fu proprio il tecnico azzurro a presentarsi davanti ai giornalisti, minimizzando da par suo: «Abbiamo parlato, convenendo che tutto sommato non è cascato il mondo. Domani c’è una tappa facile, poi il giorno di riposo, e dopo una cronometro che Fausto può vincere a spasso (e lo farà, ndr). Se proprio deve andare a casa, meglio che lo faccia con la bocca piena». Si sa come andarono le cose: a Parigi, Coppi festeggiò il suo primo trionfo al Tour, con quasi 11 minuti su Bartali.

Binda se n’è andato a quasi 84 anni, il 19 luglio 1986. Un giorno da Tour de France, naturalmente: le rievocazioni in suo onore si mischiarono alla lotta intestina Lemond-Hinault per la maglia gialla, quasi un inconsapevole omaggio al grande mediatore azzurro.