La pipì di Gaul, la furbata di Coppi, il tradimento di Benoni Beheyt: altro che strette di mano, il ciclismo del passato era una giungla

Charly Gaul in una foto d'archivio dal Giro d'Italia del 1958
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Giovani, fortissimi e molto, ma molto leali: l’immagine della stretta di mano fra Vingegaard e Pogaçar, dopo che il primo aveva aspettato il secondo malauguratamente caduto, ha fatto il giro del mondo, raccogliendo legittimi apprezzamenti. Due grandi rivali che si rispettano e che rifiutano il “mors tua vita mea”: tutto molto bello, per dirla alla Pizzul. Se qualcuno però volesse ripescare dal passato una galleria di casi analoghi, farebbe una certa fatica, perché il ciclismo di una volta era crudo fino al cinismo e i corridori potevano essere anche amici fuori corsa, ma in bici non avrebbero perdonato neanche madri e padri. Per esempio, nessuno aspettò il povero Charly Gaul quando si fermò a fare pipì, al Giro d’Italia del 1957. Anzi, lo attaccarono furiosamente, proprio approfittando di quella pausa fisiologica. Accadde nella tappa che da Como saliva fino al Monte Bondone. Gaul, che proprio sul Bondone in una tremenda giornata di maltempo aveva vinto il Giro l’anno prima, era di nuovo in maglia rosa.

Alle porte di Ospitaletto, il lussemburghese decise quindi di appartarsi. Una cosa normale, visto che al traguardo mancavano ancora 140 chilometri. Ma Gaul si era fatto più di un nemico, per la sua condotta sparagnina e vagamente altezzosa: stava sulle ruote e aspettava le salite, sulle quali sapeva di essere il più forte.

Gaul si apparta, Bobet lo attacca, Nencini vince il Giro

La nuvola di avversione deflagrò proprio in quell’occasione, per impulso del nobile Louison Bobet, che dopo aver vinto tre Tour de France aveva messo nel mirino anche il Giro. A un cenno, i suoi gregari si scatenarono, portandosi dietro anche Gastone Nencini, secondo nella generale. Il gruppo si allungò fino a spezzarsi. Gaul rimontò precipitosamente in bici e cominciò ad inseguire, ma si consumò inutilmente, tanto che all’attacco del Bondone, teoricamente il suo terreno, si ritrovò completamente in rosso. I dieci minuti di ritardo furono una sentenza: il Giro era andato.

La vendetta fu servita ancora calda: il giorno dopo, quando Nencini forò sulla discesa del Rolle e perse contatto da Bobet, Gaul lo tenne a ruota amorevolmente fino a ricondurlo sul francese. A Milano, il toscano festeggiò il suo primo (e unico) Giro d’Italia, Bobet lo perse per soli 19”.

Giro 1953: il patto Coppi-Koblet non resse allo Stelvio

In quella edizione Fausto Coppi non c’era, fermato da uno dei suoi tanti infortuni. Ma quattro anni prima, nel 1953, la “furbata” l’aveva fatta proprio lui, ai danni del fortissimo Hugo Koblet. Nella tappa dolomitica che arrivava a Bolzano, Fausto le aveva tentate tutte per togliere allo svizzero la maglia rosa. Finalmente, sul Pordoi era riuscito ad andarsene, ma lungo la discesa Koblet lo aveva ripreso piuttosto agevolmente. «Il Giro è finito», disse Coppi alla radio, in segno di resa. Più o meno lo stesso concetto lo ribadì a quattr’occhi con Koblet, accordandosi secondo risaputi canoni ciclistici: a te il Giro, a me la tappa di domani.

Il giorno dopo c’era da scalare il terribile Passo dello Stelvio, che il Giro affrontava per la prima volta: un mostro di 2700 metri, in buona parte coperto di neve. Nel clan Bianchi si diedero da fare per convincere Fausto a giocarsela fino in fondo, anche perché il distacco tra i due, 1’59” non era abissale. Addirittura, la mattina, il fido Ettore Milano andò a scrutare gli occhi di Koblet, trovandoli arrossati e cerchiati. Ne dedusse che lo svizzero non aveva smaltito la stanchezza, e andò a riferire al capitano.

Alla fine, Coppi si convinse che il Giro era ancora in ballo, ma non voleva assolutamente essere lui a rompere il patto. Così, quando cominciò l’ascesa dello Stelvio, si affiancò al giovane Defilippis chiedendogli di scattare. Il “cit”, come era chiamato, correva in un’altra squadra, la Legnano, ma non si sognò di disattendere un invito del Campionissimo. Quindi, partì. Koblet commise l’errore di seguirlo, e Coppi poté ritenere il patto carta straccia. Fu lui ad aprire le ali e volare via da solo: in cima allo Stelvio aveva su Koblet 4’25”, che all’arrivo si ridussero a 3,28”, sufficienti per consegnare all’Airone il quinto Giro d’Italia.

I giornali svizzeri gridarono alla scorrettezza e al tradimento, ma qualche giorno dopo fu proprio Koblet a spegnere i fuochi, dichiarando diplomaticamente che il «preteso impegno assunto da Coppi» era «assolutamente inesistente». «Fausto – continuò – si è limitato a dire alla radio dopo il suo arrivo a Bolzano che mi considerava troppo forte per potermi attaccare. Questo è tutto. Io non ho mai pensato di attribuire un carattere impegnativo a una tale dichiarazione».

Duclos-Lassalle e Ballerini: prima la supplica, poi la beffa

Assolutamente non impegnativa si rivelò la supplica di Duclos-Lassalle a Ballerini, nel finale della Roubaix del 1993. Franco scivolava sul pavé con regale disinvoltura, il francese faticava a tenerne la ruota: «Non mi staccare, mi accontento del secondo posto», pregò Duclos-Lassalle, ma all’entrata del velodromo uscì dalla scia sparando tutto quello che aveva. Ballerini perse qualche metro e fallì la rimonta di qualche centimetro. A caldo, pensò addirittura di buttare la bici alle ortiche, ma negli anni successivi lavò l’onta con due trionfi, arrivando in entrambe le occasioni solo al velodromo, a scanso di sorprese.

Su Benoni Beheyt la maledizione di Van Looy

Del resto, nella giungla della corsa i patti sono spesso “chiffon de papier”, disintegrati dall’agonismo e dalla voglia di vincere. Nel 1963 la federazione belga fece firmare un vero e proprio contratto ai suoi corridori: tutti avrebbero dovuto correre per per far vincere il terzo mondiale a Rik Van Looy, non a caso chiamato “l’imperatore di Herentals”.

I suoi sette compagni si attennero alle consegne, ma quando si arrivò allo sprint finale il giovane Benoni Beheyt dimenticò tutto e rimontò il capitano. Van Looy tentò di tagliargli la strada, tanto che Benoni fu costretto a staccare un braccio dal manubrio per difendersi. Ci furono polemiche sulla regolarità dell’epilogo, ma ci fu soprattutto la rabbia di Van Looy, che sibilò: «So bene come ripagare Benoni del tradimento».

Infatti: il grande belga provvide a fare terra bruciata attorno al neo campione del mondo, sfruttando la sua vasta rete di alleanze. Benoni Beheyt, che aveva numeri da grande corridore, non a caso smise molto prima dei trent’anni, appesantito da una sorta di marchio d’infamia.

Di fronte a questa galleria di furbate e vendette connesse, la stretta di mano tra Pogaçar e Vingegaard si colloca in un altro emisfero, e forse ci racconta che il ciclismo è davvero cambiato: da “mestiere” duro e talvolta maledetto è diventato sport, seppure iperprofessionistico.