TOUR DE FRANCE / TOUR mon amour: la storia di Clarke, senza una squadra fino a gennaio

Simon Clarke in trionfo sul traguardo di Wallers-Arenberg della quinta tappa del Tour de France 2022 (foto:A.S.O. / Charly Lopez)
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TOUR mon amour è la rubrica di Bicisport sul Tour de France che racconta una storia, un personaggio, un frammento di ognuna delle ventuno tappe della Grande Boucle. Non necessariamente chi ha vinto o chi ha perso, ma chi ha rubato la nostra attenzione o il nostro sguardo anche solo per un attimo.


Quando sentite dire a Simon Clarke «mi godo ogni gara come se fosse l’ultima», non dovete pensare ad una frase fatta, buttata lì tanto per aderire allo stereotipo zingaresco del corridore ormai maturo e (abbastanza) indipendente dal bisogno di fare risultato: la Parigi-Roubaix dello scorso anno, chiusa al 55° posto, per tutto l’autunno è stata l’ultima corsa da professionista dell’australiano. Dopo la chiusura della Qhubeka, di cui faceva parte, si era ritrovato inaspettatamente disoccupato e alla ricerca di una squadra. In più di un’intervista si descriveva come «esperto, adatto a più terreni, disposto ad aiutare i capitani e ad entrare nelle fughe di giornata», sperando di ingolosire qualche formazione. Aveva cominciato a prendere in considerazione anche l’idea del ritiro, magari mettendo a frutto la laurea in economia e commercio, ma abbandonare il ciclismo in questa maniera gli sarebbe dispiaciuto davvero tanto.

Quella chiacchierata con Dean Woods che cambiò la vita a Simon Clarke

Simon Clarke che, in carriera, ha vinto sei corse (due tappe alla Vuelta) e ne ha concluse tante altre a ridosso dei migliori: nel 2013 settimo ai mondiali di Firenze, nel 2019 nono alla Sanremo e secondo all’Amstel Gold Race (rischiò di rovinare uno dei giorni più belli della carriera di van der Poel). Lui che al ciclismo s’appassionò nel 1997, aveva undici anni. Nella sua scuola vennero a parlare della Great Victoria Bike Ride, che con nessun timore viene presentata come la più iconica delle vacanze a pedali. Nove giorni in giro per l’Australia, circa 600 chilometri in mountain bike e la sensazione, finalmente, d’aver trovato il proprio sport dopo una serie infinita di passaggi a vuoto: troppo basso per basket e pallavolo, piedi troppo piccoli per il nuoto, poca destrezza per tennis e baseball, troppa poca cattiveria agonistica per il football.

Poi, un giorno, l’opportunità di pedalare con Dean Woods, oro nell’inseguimento a squadre alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Mentre gli altri ragazzi presenti perdevano contatto, Clarke in qualche modo riuscì a rimanere al fianco di Woods e perfino a chiacchierarci. Alla fine fu proprio quest’ultimo a prendere la parola: «Hai resistito più di chiunque altro», gli fece notare, come se Clarke non se ne fosse già accorto. «Dovresti davvero entrare a far parte di una squadra». Da quell’incoraggiamento, che Clarke ricorda ancora oggi come fondamentale, la sua carriera ha preso le mosse. Venne a vivere in Italia, a Gavirate, ancora giovanissimo dopo essere stato scelto dall’Australian Institute of Sports, che aveva la sua sede europea proprio in Lombardia. Trovò un team, l’Amica Chips, che chiuse dopo tre mesi. Fu la prima volta in cui temette di rimanere senza lavoro. Poi arrivò l’offerta della Isd di Scinto e tutto si rimise a posto, la stessa cosa che si è verificata anche all’inizio di quest’anno quando è stata la Israel-Premier Tech ad ingaggiarlo.

Un puncheur che batte i passisti sulle pietre del Nord al Tour de France

Dei fuggitivi di oggi al Tour de France, il puncheur Simon Clarke sembrava il meno adatto: lui, più raccolto ed esplosivo, sarebbe riuscito a reggere il confronto con passisti assai più robusti e scafati di lui sulle pietre del Nord come Boasson Hagen, Gougeard e van der Hoorn? La corsa ha dato una risposta inaspettata: sì, c’è riuscito, battendo proprio van der Hoorn in una di quelle volate picchiettanti e logoranti di cui l’olandese è maestro. La sua vittoria più bella, la sua giornata più bella, è arrivata proprio in Europa, la terra che lo ha accolto giovanissimo e ambizioso. Col tempo ha imparato l’italiano (lui sostiene che se uno conosce la lingua in Italia non avrà mai problemi), ma conosce anche giapponese e indonesiano. Oggi, per arrivare al traguardo senza mai bisticciare coi compagni di fuga, ha parlato nella lingua universale degli attaccanti: quella del guadagno, della (forse) unica possibilità a disposizione per giocarsi una tappa del Tour de France. Sul traguardo di Wallers, più di vent’anni dopo, è stato ancora il migliore dei ragazzi, quello che ha resistito più di chiunque altro.