Scarselli, professione direttore sportivo: «Insegno ai ragazzi che il talento non basta»

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Leonardo Scarselli direttore sportivo della Maltinti in una foto d'archivio
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Leonardo Scarselli si ricorda ancora di quello che gli disse una volta Marcello Massini venticinque anni fa. «Dovresti perdere qualche chilo, mi suggeriva ogni tanto. Massini era fissato col peso. Però con me non insisteva molto, probabilmente perché non ero grasso. Difatti gli rispondevo sempre: Marcello, ma sono in forma, perché dovrei dimagrire ancora? Lui si metteva a ridere, ma la sua era una risata strana, come a dire: un giorno, se mi darai retta, capirai».

Com’è andata a finire, Leonardo?

«Che aveva ragione, ovviamente. A quei tempi la Grassi di Massini era una corazzata. Io, che ero un buon dilettante ma non un vincente, già allora facevo il gregario di questi talentuosi coetanei. Però non è così che si passa professionista, e quindi andai alla Monsummanese: volevo mettermi in proprio e capire fin dove sarei potuto arrivare».

Era il 1999, l’anno che poi ti lanciò tra i professionisti.

«Pesavo 70 chili, decisi di perderne qualcuno e arrivai intorno ai 66. Non ero mai andato così forte, tant’è che vinsi la prima tappa del Giro d’Italia dei dilettanti. Con questo cosa voglio dire? Che il direttore sportivo serve, non è lì per guidare la macchina e accompagnare i ragazzi qua e là. Ma i ragazzi di oggi non sembrano capirlo».

Tu attualmente sei il direttore sportivo della Maltinti, una squadra dilettantistica che in passato ha vissuto grandi annate. Parli per esperienza.

«Ma qui non si tratta di parlare dei miei o degli altri, è un discorso di sistema. I ragazzi, oggi, sono degli autodidatti e pensano di saper già tutto. Alla loro età, invece, una volta si fa bene e novantanove male: però per quell’unica cosa fatta bene ci si monta la testa e ci si sente dei fuoriclasse».

Voi delle ammiraglie dite sempre le stesse cose, dando la colpa perlopiù ai ragazzi e a certi meccanismi che si sono innescati e dai quali sembra impossibile tornare indietro. Ma qualche responsabilità ce l’avranno pure i direttori sportivi.

«Certo: quelli che non sanno fare il loro mestiere, che capiscono poco di tattiche e preparazione; quelli che usano i ragazzi per togliersi le soddisfazioni; quelli che sono pappa e ciccia coi genitori e coi procuratori; quelli che vanno in giro a dire d’avere per le mani un talento quando invece il ragazzo in questione ha vinto una gara e basta, e magari quando propongono un corridore vero nessuno gli dà retta perché non hanno più credibilità».

– Firenze – Empoli – Under 23 – Leonardo Scarselli

Cosa ti ha insegnato Massini?

«Tutto, letteralmente tutto. Campioni si nasce, corridori si diventa. La carriera di un ciclista si gioca sui dettagli, sulle accortezze, sulla somma di piccoli fattori. Per definirsi professionisti non basta pedalare sei ore al giorno e mangiare pollo e insalata. Ci sono tantissime sfumature che un ragazzo di vent’anni non può comprendere, almeno non del tutto, ed è proprio a questo che serve un direttore sportivo».

Ma il talento dei campioni non s’apprende.

«Su questo siamo d’accordo, ma sai quanti ne ho conosciuti di ragazzi talentuosi che a vent’anni o poco più avevano già smesso e cominciato a lavorare? Il talento ti può bastare una volta, non ti ci puoi nascondere dietro. E in certi momenti bisogna avere il coraggio di dire le cose come stanno: se un ragazzo non ha la testa o la stoffa per fare il corridore, allora è bene che non perda tempo e cominci subito a fare qualcos’altro».

Come si fa a tenere tranquilli e motivati dei ragazzi che hanno l’età di Evenepoel e Ayuso, già protagonisti nella massima categoria?

«Non ci vuole nulla ad essere marinai quando il mare è tranquillo, no? Io credo che l’avvento di Evenepoel abbia messo a nudo le inefficienze e le inadeguatezze della categoria. Chi si è lasciato prendere dall’ansia e dall’ingordigia, secondo me non ha capito nulla. Pogacar ha corso due anni tra i dilettanti, ma non è stato un mangiamondo: un bel talento, certo, ma è diventato un campione quand’è passato tra i professionisti. Però non lo ricorda mai nessuno».

La Maltinti, che in alcune stagioni ha recitato da protagonista assoluta, negli ultimi anni si è ridimensionata. Come mai?

«Pensa un attimo alla concorrenza che ha una squadra più piccola e tradizionale come la nostra: le continental, le development, le professional, le World Tour. Se viene fuori uno juniores, ad esempio, dove volete che vada? Quante possibilità ci sono che venga a correre da noi? Fa fatica la Mastromarco, una realtà che ha lanciato corridori come Nibali e Bettiol. Ogni anno dobbiamo allestire la squadra andando a pescare tra quello che rimane».

Che idea ti sei fatto delle continental?

«Che concettualmente hanno ragione d’esistere, ma il movimento italiano le ha interpretate nella maniera sbagliata. La continental dovrebbe permettere un’attività giovanile di buon livello a quei talenti che hanno dimostrato d’avere del potenziale, giusto? E allora perché alcune me le ritrovo nelle gare regionali? Che vadano all’estero o a fare qualche esperienza coi professionisti, come gli compete».

In molti si giustificano dicendo che trasferte del genere sono impegnative, sia logisticamente che economicamente.

«E allora che lascino fare la continental a chi ha veramente i soldi per potersela permettere. Ma che senso ha, dico io, mettere in piedi una squadra comunque costosa per fare una corsa all’anno coi professionisti e non competere mai coi pari età in Francia, Olanda e Belgio? Invece vengono nelle gare regionali, ammazzano la competizione perché hanno i migliori corridori e impediscono alle squadre più piccole come noi di andare avanti dignitosamente. Ma che gusto c’è?»

Chissà se un domani ci saranno ancora imprenditori genuini, appassionati e attaccati al territorio come Renzo Maltinti.

«A volte me lo chiedo anche io. Me lo auguro, ma non sono ottimista. Quando Renzo, anni fa, mi venne a cercare per seguire i suoi ragazzi, ne fui contentissimo. All’epoca avevo passione e tempo a disposizione, ora mi è rimasta soltanto la prima. Lavoro a tempo pieno, infatti ho chiesto d’essere affiancato da Tiziano Antonini, altrimenti i corridori rimangono senza un riferimento stabile. Ma alle gare non manco mai, mi piace e mi diverto».

Quale gara sogni di vincere?

«Una Firenze-Empoli, più per far felice Renzo Maltinti che per soddisfazione personale. A me questo mestiere piace, ma anni fa ho preso una decisione: di non farlo diventare il mio lavoro a tempo pieno perché volevo stabilità e prospettive, e non dipendere da contratti annuali. Ma rimango convinto e appassionato, consapevole nel mio piccolo di poter dare una mano a quei ragazzi che hanno l’umiltà d’ascoltare e la consapevolezza di dover crescere».