Butteroni, il peggio è alle spalle: «Dopo il tumore alla tiroide provo a rilanciarmi con la Maltinti»

Butteroni
Gregorio Butteroni correrà nel 2023 con la Maltinti dopo l'esperienza alla Mastromarco
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Quando Rino De Candido gli spiegò che all’estero le corse sono mediamente più dure che in Italia, Gregorio Butteroni rimase dubbioso. Erano in Francia, al Trophée Morbihan, prestigioso appuntamento internazionale dedicato agli juniores. Era il 2019 e Butteroni era uno dei volti nuovi della categoria. Uno dei più brillanti, peraltro: al secondo anno tra gli allievi vinse dodici corse, arrivando spesso e volentieri da solo.

«Non avevo mai gareggiato fuori dall’Italia – racconta – Ricordo ancora quando De Candido mi disse: guarda che il 52×14 lo metti alla partenza e lo togli all’arrivo, non ci sono tempi morti. Io ero un po’ scettico e un po’ impaurito. Per i primi ottanta chilometri della tappa inaugurale volevo ritirarmi. Poi, allo sprint, anticipai parecchi corridori che oggi sono professionisti: Watson, Hessmann, Ayuso. Nella classifica generale chiusi quarto, appena davanti ad Ayuso e Rodriguez. Stavo finalmente capendo, senza superbia, d’essere più bravo della media».

Dopo due brillanti stagioni tra gli juniores, nel 2021 approdi tra i dilettanti alla Mastromarco. Ma è come se la tua traiettoria si fosse interrotta.

«In due annate tra gli Under 23 ho corso poco o nulla. Se nelle categorie giovanili era filato tutto liscio come l’olio, tra i dilettanti ho dovuto affrontare un problema dopo l’altro. Prima un tampone positivo, tant’è che durante il primo anno non mi sono mai sentito davvero me stesso. Poi mi è stata riscontrata la mononucleosi. Ed è proprio sottoponendomi ad un ciclo di esami che ho scoperto di avere un tumore alla tiroide».

Questo cos’ha comportato per te?

«L’operazione era stata subito programmata per la fine della stagione. Sono finito sotto ai ferri il 20 novembre, nemmeno tre mesi fa. Non mi sono allenato né tantomeno ho corso con la mente sgombra, poco ma sicuro. Adesso devo dire che sto bene. Mi sono concentrato sulla riabilitazione e sento che piano piano la situazione migliora. Sto ritrovando una certa serenità: non è stata una passeggiata, ma almeno ho capito cos’è, almeno ho potuto dare un nome e una forma alle strane sensazioni che avevo».

Ma la tua vita sta proseguendo regolarmente?

«Sì, devo prendere una pasticca che compensa la metà della tiroide che mi manca, ma per il resto direi che tutto prosegue come prima. Il controllo è costante, così i dottori capiscono se aumentare o meno il dosaggio. Ho parlato del mio problema anche con Petito, l’ex professionista: lui ha sofferto di ipertiroidismo, ma ha comunque chiuso tra i primi dieci classiche come Sanremo, Fiandre e Roubaix. Confrontarmi con lui mi ha fatto piacere».

Dope le prime due stagioni tra gli Under 23 con la Mastromarco, per quest’anno hai deciso di trasferirti alla Maltinti. Perché?

«Intendiamoci, io alla Mastromarco non mi sono trovato male e loro non mi hanno mai mancato di rispetto, anzi. E’ che, con tutto quello che mi è successo, sentivo il bisogno di cambiare aria e ripartire da zero. Insomma, chiudere col recente passato e fare finta che non sia successo niente. L’ambiente della Maltinti già lo conoscevo, essendo io toscano e ormai nel giro da un paio d’anni. Mi avevano cercato già quand’ero juniores e si sono fatti nuovamente avanti non appena hanno saputo che volevo cambiare squadra».

Con che piglio affronterai la stagione che sta per cominciare?

«Sinceramente? Non voglio aspettarmi né chiedere nulla a me stesso. Almeno per il momento non sono il corridore di qualche anno fa, è innegabile. Sarebbe ridicolo, visti i pochi risultati ottenuti e i tanti problemi avuti, se adesso mi mettessi a fare proclami. Mi piacerebbe mettermi in mostra nelle gare di aprile, questo sì: è il periodo delle classiche internazionali, le corse che mi si addicono di più. Dovendone nominare una scelgo il Gran Premio del Marmo, anche se si disputa a maggio».

Allora dobbiamo considerarti un corridore da classiche?

«Io mi sono sempre definito completo, le etichette specifiche non mi sono mai interessate. La mia corsa di un giorno preferita è la Sanremo, ma mi entusiasmano anche le classiche del Nord. Nel 2020, al secondo anno tra gli juniores, ho avuto l’opportunità di partecipare con la nazionale alla Kuurne-Bruxelles-Kuurne: una bellissima esperienza, affrontammo il Kwaremont e il Paterberg, e alla fine chiusi 28°. Vinse Uijtdebroeks, che l’anno scorso ha conquistato l’Avenir. Il pavé mi affascina anche se, tuttavia, non ho un fisico da granatiere: sono alto 1,76 e peso 63 chili».

Hai un ciclista di riferimento?

«Nonostante io abbia cominciato a correre ormai tredici anni fa, alle gare in televisione mi sono avvicinato più tardi. A me ha sempre colpito Kwiatkowski. In lui vedevo una specie di modello: completo, competitivo su qualsiasi terreno, scomodo per ogni avversario, tatticamente imprevedibile e in grado quindi di battere con la scaltrezza anche avversari più forti di lui. E poi non posso non citare Ulissi: io sono di Cecina, lui di Donoratico, e quando viene da queste parti ci alleniamo spesso insieme».

Leonardo Scarselli, diesse della Maltinti, in una foto d’archivio

C’è un suo insegnamento che ti è rimasto particolarmente impresso?

«Ulissi è uno di poche parole, ma quando parla si fa intendere. E’ professionista da più di dieci anni, ha vinto una quarantina di gare e ben otto tappe al Giro d’Italia: uno così si osserva e si ascolta. Di lui ammiro soprattutto la professionalità: conosce tutto quello che c’è da fare per essere costante ad alti livelli. Rimane quasi sempre coi migliori, che sia il capitano oppure uno dei gregari di lusso. E’ una garanzia, insomma, e non a caso è uno dei pilastri di una delle squadre più forti del mondo».

Caratterialmente come ti descriveresti?

«Altruista, mi piace pensare alla squadra in cui corro e magari dare qualche consiglio ai ragazzini che si avvicinano al ciclismo. Un difetto? Sono sempre stato molto sensibile, ero capace di rimanerci male anche per la minima sgridata. Adesso sono cresciuto e mi sono rafforzato, ma cerco sempre di non scordarmi questa mia particolarità. Quando s’impara a conoscersi e ad accettarsi, di conseguenza si capisce anche come gestirsi».

Coltivi altre passioni?

«Principalmente il biliardo: quello coi birilli, non quello con le buche. Quand’ero più piccolo andavo ad un bar vicino casa e ci trovavo sempre dei signori che ci giocavano. Mi incuriosiva e quindi mi avvicinai. Loro mi chiesero se volevo provare, io dissi di sì e quindi insieme ad un amico cominciammo ad allenarci. Me la cavo benino, ho partecipato a qualche torneo. Mi piace il processo di costruzione del punto: bisogna calcolare, immaginare, prevedere. Non si può tirare sempre per vincere».