Bruttomesso ha le idee chiare: «Voglio diventare qualcuno e con la Zalf posso riuscirci»

Bruttomesso
Alberto Bruttomesso vince il Trofeo BCC Romagna Occidentale (foto: IsolaPress)
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Cosa bisogna pensare quando Alberto Bruttomesso, uno dei più promettenti talenti italiani, afferma di non aver mai creduto di poter cominciare così bene tra gli Under 23 vincendo non una, bensì due volte, prima a Montelupo Fiorentino e poi nel Memorial Sauro Coppini, nel giro di una settimana? Credergli è difficile: lo scorso anno, tra gli juniores, le sue vittorie sono state dodici (comprese due cronosquadre, una delle quali valevole per i campionati italiani, una tappa e la classifica degli sprint del Lunigiana). 

Tuttavia, allo stesso tempo è comunque difficile anche non credergli: diversi buoni dilettanti due vittorie non le mettono insieme in un anno, tanto per capirsi. E lui, che in questa categoria è arrivato da poche settimane, a giugno dovrà sostenere pure la maturità. A detta sua, l’obiettivo principale della stagione.

Alberto, a cos’è dovuto tutto questo stupore?

«Al fatto che per me è tutto nuovo. Gli avversari, le corse, il livello che continua ad alzarsi. Durante l’inverno sentivo di star bene ed ero convinto di prepararmi nella maniera giusta, ma erano soltanto delle impressioni. Finché uno non si attacca il dorsale non sa mai cosa aspettarsi, né da se stesso né dagli altri».

Davvero non immaginavi di poter cominciare così bene?

«Come ho detto, in allenamento avevo ottime sensazioni, ma vincere due delle prime cinque corse da dilettante è un altro discorso. A questa stagione non ho mai chiesto più di tanto in termini di risultati: sono al primo anno nella categoria e ho la maturità. La mia priorità è quella, tutto ciò che verrà sarà ben accetto. Non ho cominciato l’anno dicendo: voglio vincere cinque gare oppure voglio trionfare in quella determinata corsa».

Cosa studi?

«Elettronica. Fortunatamente riesco a far coincidere bene studio e ciclismo. Se è dura? Certo che lo è, ma finché prendo buoni voti e arrivano dei bei risultati non posso proprio lamentarmi. Non ho ancora deciso se iscrivermi o meno all’università. Intanto voglio arrivare alla maturità e superarla bene, al resto ci penserò in un secondo momento».

Da questo punto di vista come ti stai trovando alla Zalf?

«Benissimo, non potevo chiedere di meglio. Una realtà vincente, professionale e comprensiva. Sono stati i primi a consigliarmi di concentrarmi sullo studio senza farmi assillare dal ciclismo e dai risultati. Con Gianni Faresin vado molto d’accordo: parla poco ma parla bene ed è sempre molto gentile e disponibile, se ho un problema mi basta chiamarlo e lui mi ascolta e aiuta».

Com’è nata la possibilità di correre per loro?

«Luciano Rui, il team manager della Zalf, lo scorso anno di tanto in tanto è venuto con noi della Borgo Molino alle gare ad aiutarci. Si è instaurata fin da subito una bella sintonia e quindi non ho avuto dubbi nell’accettare la sua proposta quando me l’ha fatta. In squadra c’è armonia: il gruppo è compatto, forte e ambizioso».

A proposito di aggettivi, come ti descriveresti?

«Determinato, voglio diventare qualcuno. Di conseguenza mi reputo professionale, preciso e meticoloso. Anche altruista, un requisito fondamentale per far parte di un gruppo come quello della Zalf. Un difetto? Mi fanno sempre notare che sono insistente, che faccio troppe domande, che non mi accontento mai di quello che mi viene detto. Ma siamo sicuri che sia un difetto?»

Le due corse che hai vinto in questo primo scorcio di stagione sono il tuo manifesto: molto veloce in volata, certo, ma tutt’altro che allergico alle salite.

«Gli sprint a ranghi ristretti sono il mio pane, anche se in certe giornate mi difendo bene anche in quelli di gruppo. Sulle salite che durano tra i 5 e i 7 minuti me la cavo: i velocisti puri si staccano, io resisto». 

Insomma, un profilo perfetto per le classiche.

«La mia corsa preferita in assoluto è la Parigi-Roubaix, anche se sul pavé non ho mai pedalato. E’ una passione istintiva, mi ricorda le domeniche passate a vederla in televisione. E’ una battaglia, chi la vince è un gladiatore. Ma è una corsa spartana, essenziale, imprevedibile. Me ne innamorai definitivamente quando vidi arrivare da solo nel velodromo Tom Boonen, il mio idolo. Mi pare fosse il suo quarto successo, quindi doveva essere il 2012». 

Cosa ammiravi di Boonen?

«Sul pavé era semplicemente devastante, forse il migliore di tutti i tempi. Ha vinto tantissimo, è entrato nella leggenda delle classiche del Nord ed era indomabile: attaccava da lontano, correva senza guanti. Un guerriero. Era potente e veloce, nel mio piccolo credo di assomigliargli». 

Sei uno dei talenti più brillanti del ciclismo italiano. Senti il peso della responsabilità?

«Assolutamente no. Da quando ho smesso di giocare a calcio e sono passato al ciclismo, avrò avuto otto o nove anni, fortunatamente sono sempre riuscito a vincere. Sono consapevole di avere del buon materiale sul quale lavorare, ma almeno per ora non sento nessuna pressione. Non devo dimostrare niente a nessuno». 

In che ruolo giocavi?

«Facevo di tutto, anche il portiere. Però al mio allenatore lo dicevo sempre: mister, mettimi in attacco. Mi piaceva correre, inseguire la palla, sfogarmi. Ho preferito il ciclismo perché era una passione di famiglia e col tempo ne sono stato contagiato. Col senno di poi devo dire che ho fatto proprio bene».