Kevin Pezzo Rosola: «Il cognome non mi pesa più. Sogni nel cassetto? Strade Bianche e Roubaix»

Paolo Rosola con suo figlio Kevin Pezzo Rosola ai Campionati italiani di mountain bike nel 2020
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C’è stato un momento, durante il Tour of the Alps dello scorso anno, in cui Kevin Pezzo Rosola s’è posto la fatidica domanda: ma chi me lo fa fare? Alla terza corsa in assoluto tra gli Under 23, la sua squadra (la Tirol Ktm, continental austriaca) lo aveva sbattuto in mezzo ad un gruppo che comprendeva, tra gli altri, corridori come Simon Yates, Vlasov, Sivakov, Quintana, Bardet. Ritiratosi nel corso della 5ª e ultima tappa, Pezzo Rosola ha pensato che il ciclismo non può essere sempre così tanto duro: altrimenti che gusto c’è? E dire che sua mamma, Paola Pezzo, gliel’aveva detto: lascia perdere, concentrati sul basket, si fa meno fatica.

Non le hai dato retta, Kevin.

«Io in bici ci sono nato. Mia mamma due volte oro olimpico nella mountain bike, mio padre (Paolo Rosola, ndr) 12 tappe al Giro d’Italia: forse era inevitabile. Però per diverso tempo non ho partecipato a nessuna gara: pedalavo soltanto perché mi piaceva, insomma. Il mio sport, all’epoca, era il basket».

Lo segui ancora?

«No, l’ho abbandonato. Ci ho giocato per sei anni, l’ho mollato perché mi sentivo fisicamente inadatto. Sono cresciuto tutto insieme più tardi, adesso sono alto 1 metro e 84. Ero playmaker. Col senno di poi, considerando che i playmaker non devono essere necessariamente 2 metri e 10, avrei anche potuto continuare».

Quanto ha influito la famiglia nelle tue scelte sportive?

«Non mi hanno mai costretto a far niente, questo voglio dirlo. Mio padre non vedeva l’ora che mi cimentassi seriamente nel ciclismo, mia mamma invece avrebbe preferito che continuassi nel basket. Mi spiegava che era meno faticoso».

Aveva ragione?

«Per l’esperienza che ho avuto io, direi proprio di sì. Ogni sport richiede i suoi sacrifici e il suo tributo di fatica, ma un conto è allenarsi in una palestra e un altro conto è pedalare nel fango con la temperatura prossima allo 0. Ho avuto bisogno di qualche tempo per adattarmi».

Diciamo che gli insegnanti non ti sono mancati.

«E’ vero, da questo punto di vista l’esperienza dei miei genitori è stata preziosa. Non nascondo, tuttavia, che all’inizio avere entrambi i loro cognomi mi pesava: quando andavo alle gare sentivo nettamente che tutti mi guardavano come se fossi speciale. E quando si è speciali si è diversi, e a me questa diversità pesava. Come se bastasse il cognome a fare un campione».

Adesso sei più sereno?

«Assolutamente sì. Io do il mio massimo e dove arrivo, arrivo. Gli altri pensino di me quello che vogliono, io ho imparato a non fasciarmi la testa prima d’essermela rotta».

Ciclocross, mountain bike, strada: ti sei cimentato in tutte e tre. Qual è la tua preferita?

«Il ciclocross l’ho lasciato perdere, almeno per il momento. La mountain bike mi piace molto, ma adesso la mia attenzione è rivolta perlopiù alla strada. Del fuoristrada apprezzo la solitudine, ma quando diventa troppa m’intristisco. Anche per questo voglio poter contare sulla compagnia e sulla presenza di un gruppo».

Paolo Rosola e Paola Pezzo insieme ad un giovanissimo Kevin: era il 2004, aveva soltanto due anni.

Nessun discorso economico, quindi?

«Non voglio essere ipocrita, c’entra anche quello. La mountain bike dà meno prospettive rispetto alla strada. Non soltanto economiche, ma proprio di carriera: pedalare per mestiere nel fuoristrada è molto complicato, su strada ci sono più sbocchi».

E allora veniamo alla strada: a chi t’ispiri?

«Mi reputo un passista, mi piace pensare d’essere un corridore adatto alle corse del Nord. Il fisico non mi manca, l’esperienza sì, ma quella si fa col tempo. Su strada, se devo essere sincero, non mi dispiace nemmeno tirare il gruppo e fare da ultimo uomo ad un velocista. Per tutti questi motivi ho sempre tifato per Boonen e Sagan, anche se quest’ultimo non mi pare più in forma smagliante come qualche anno fa». 

I fiori all’occhiello della multidisciplinarietà come Van Aert, Van der Poel e Pidcock cosa ti trasmettono?

«Ammirazione, banale ma inevitabile. Vincono ovunque e da ogni disciplina traggono qualche vantaggio: guidano bene il mezzo, hanno un’accelerazione bruciante, non hanno problemi a gestire il fuorisoglia. Sono dei campioni, c’è poco da fare».

E tu, invece, cos’hai appreso dalla tua intensa attività?

«Soprattutto la scaltrezza, che secondo me si acquisisce soltanto da giovani, più avanti è molto difficile. Ad esempio, quando mi sono concentrato maggiormente sulla strada soffrivo la mancanza di fondo e resistenza, ma nella guida del mezzo e nel colpo d’occhio me la cavavo meglio di tanti altri miei coetanei che pedalavano in gruppo da molto più tempo. Anzi, grazie a queste accortezze riuscivo a nascondere i miei limiti d’allora».

A che punto della tua crescita senti d’essere arrivato?

«Pedalo relativamente da poco, quindi credo e spero di avere ancora parecchi margini di miglioramento. Non so se riuscirò a passare professionista e a vincere gare come Parigi-Roubaix e Strade Bianche, le mie preferite, però vedremo quello che mi riserva il futuro. Ho compiuto 19 anni il 30 novembre, non voglio andare di fretta».

Quando e dove debutterai quest’anno?

«All’inizio di marzo in Croazia. Poi mi aspettano le classiche internazionali in Italia. Alcune per me sono troppo dure, altre come il Liberazione invece mi si addicono. Più che all’Avenir, al quale sinceramente non penso, vorrei far bene al Giro, al quale so già che parteciperò. Vincere una tappa sarebbe bello. Difficile, ma bello».