Giosuè Crescioli non ha dubbi: «Sono sempre stato un talento e alla Mastromarco posso rilanciarmi»

Giosuè Crescioli
Giosuè Crescioli con la nuova maglia della Mastromarco Sensi
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All’inizio, quando Giosuè e Ludovico Crescioli iniziarono ad imporsi con continuità nelle categorie giovanili, li battezzarono “gli Schleck“. Poi, mano a mano che Giosuè cresceva in altezza fino al metro e novanta odierno, e nonostante tutto la sua bella figura in salita l’ha sempre fatta, qualcuno disse che assomigliava a Froome.

Giosuè Crescioli ha dovuto imparare fin da subito a non farsi definire da questi paragoni ingombranti e a non lasciarsi appesantire dalle talvolta esagerate aspettative degli altri. Il ciclismo è soltanto uno dei tre sport affrontati con successo da Crescioli. Da bambino giocava a calcio e faceva il portiere, promettente quanto basta per far sì che Fiorentina ed Empoli, due dei migliori vivai europei, si interessassero a lui. Nel nuoto, invece, arrivò a partecipare ai campionati italiani.

Perché alla fine hai scelto il ciclismo, Giosuè?

«Come si fa a spiegare una passione? Non la si spiega, la si vive e basta. Il calcio lo abbandonai intorno ai 10 anni, mi sembrava fosse arrivato il momento di prendere una scelta, già da tanto tempo giocavo a pallone d’inverno e pedalavo d’estate. Il nuoto, invece, l’ho lasciato da parte alcuni anni fa. Alla corsia e alla vasca preferivo l’aria aperta».

Questa intensa attività sportiva non ti è mai pesata?

«No, io sono un uomo sportivo, senza non saprei stare. Mi è sempre piaciuto sudare, allenarmi, migliorare. Certo, riuscire bene in tutti e tre gli sport ha significato molto, un bambino si sente incentivato a proseguire. Io lo sport non solo lo pratico, ma lo seguo quotidianamente».

Quali in particolare?

«Tifo Juventus ma non sono accanito, del nuoto non mi perdo nulla e recentemente grazie a mio fratello mi sono avvicinato alla Nba e alla Formula Uno. Questa grande passione per lo sport ce l’hanno trasmessa anche i nostri genitori: mio padre ha corso in bici fino ai dilettanti, mia mamma a 18 anni giocava già nella Serie B di pallavolo e ci è rimasta finché un grosso infortunio ai legamenti non l’ha costretta a smettere».

Sono stati anche loro a spingerti verso il ciclismo?

«Più mio padre che mia madre, mai forzandomi però. La scelta l’ho presa io: il ciclismo mi piaceva più di tutto il resto e mi levavo tante soddisfazioni. Non l’ho presa a cuor leggero, come dicevo praticavo volentieri anche calcio e nuoto».

Già, i risultati. Ti sei messo in mostra fin dagli esordienti, segnalandoti come uno dei talenti più promettenti del ciclismo italiano.

«Da bambino mi capitava di doppiare il gruppo. Da esordiente vinsi una quindicina di corse, quando passai tra gli allievi migliorai ulteriormente. Forse è il periodo in cui sono andato più forte, in un paio di stagioni conquistai sedici vittorie. Tra gli juniores ho esultato poche volte, ma in compenso ho centrato una marea di piazzamenti. Alcuni molto indicativi, peraltro».

Ne ricordi uno in particolare?

«Al primo anno nella categoria, era il 2018, partecipai al Lunigiana, storica corsa a tappe. Nella prima tappa ci giochiamo il successo in cinque. Io arrivo terzo, il primo si chiamava Remco Evenepoel. In quel biennio ho capito che il livello si era alzato e vincere sarebbe stato più complicato, ma piazzamenti del genere mi davano fiducia».

E allora cos’è successo in queste prime due annate tra gli Under 23? Da un talento come il tuo era lecito aspettarsi molto di più.

«Me lo dicono in tanti e non posso che concordare, io per primo ci sono rimasto male. Qualche colpa me la prendo anche io, non sempre mi sono allenato con la concentrazione e la determinazione adatte. Però la fortuna non mi ha aiutato: prima la pandemia e poi due tendinosi al ginocchio mi hanno impedito di correre con la continuità della quale avevo bisogno».

Hai scelto la Beltrami, una continental, e in due stagioni hai corso quasi più coi professionisti che con gli Under 23.

«E’ vero, non nego che è stato emozionante e spero già da quest’anno di far fruttare queste esperienze. Però più ripenso al passato e più sono convinto d’aver fatto bene ad accettare l’offerta di Gabriele Balducci e della Mastromarco». 

Un ambiente diverso dal precedente: sei a due passi da casa e nelle mani di un direttore sportivo vecchio stile.

«Probabilmente è di questo che avevo bisogno: di una realtà più piccola, più calda, più familiare. Non voglio criticare la Beltrami, non mi sono trovato male, ma troppo spesso gli juniores preferiscono passare fin da subito in una continental convinti di bruciare le tappe e imparare il mestiere prima degli altri. E invece son più le responsabilità che le gioie: reggere il ritmo dei professionisti è complicato e tra i dilettanti non sono concesse tante battute a vuoto proprio perché si fa parte di una formazione più ricca e strutturata delle altre».

Cos’hai sentito precisamente, Giosuè?

«Che prima di prendere le misure al mondo dei professionisti devo ancora prenderle a quello dei dilettanti, che forse ho fatto il passo più lungo della gamba. Non sono precoce come altri, inutile negarlo, e allora preferisco ripartire dal dilettantismo puro e capire fin dove posso arrivare. Vivo a Lazzeretto, qualche chilometro da Mastromarco. Vicino a me ci sono Balducci e diversi compagni di squadra: non potevo chiedere di meglio».

Conoscevi già Balducci?

«Sì, da anni mi faceva la corte. Di lui mi piacciono la schiettezza e la capacità d’ascoltare sinceramente gli altri. Dicono che come direttore sportivo sia un duro, ma non mi spavento: deve esserlo, il suo compito è quello di insegnarci al meglio un mestiere talvolta impietoso, non è lì per consolarci».

Alla Mastromarco ritrovi tuo fratello Ludovico, bel talento come te, di due anni più piccolo e alla prima stagione tra i dilettanti. Che rapporto avete?

«Ci vogliamo bene e tra di noi c’è una sana rivalità. In bicicletta non tanto, più fuori: ad esempio se giochiamo a ping pong o ai giochi da tavolo. Nessuno dei due vuole perdere. Quando saliamo in sella cambia tutto: lui, rispetto a me, è più basso e più magro. Io un passista-scalatore, lui uno scalatore puro dotato di un ottimo spunto veloce. In tanti, scherzando, ci dicono che non sembriamo nemmeno fratelli».

Quali sono le gare dei sogni del passista-scalatore Giosuè Crescioli?

«L’eterno paragone tra classiche e grandi giri: come dover scegliere tra cento metri e maratona, quasi impossibile. Allora, il Tour de France e il mondiale sono i due appuntamenti principali, penso che nessuno possa sostenere altrimenti. Però diciamo che il Fiandre e la Roubaix non sono da meno, specialmente per uno come me che da bambino aspettava settimane intere per vivere quelle domeniche da classica monumento».

Anche tu, quindi, stregato dalla rivalità tra Boonen e Cancellara?

«Entrambi alti e robusti, entrambi vincenti e grandi protagonisti delle classiche del Nord: non potevo rimanere insensibile, vi pare? Un altro dualismo che mi ha coinvolto è stato quello tra Contador e Froome: grande e spettacolare talento il primo, più calcolatore e letale il secondo. Dello spagnolo apprezzavo classe e coraggio, del britannico la pedalata agile e la grande caparbietà che lo ha portato a diventare un campione».

Quello che vuoi diventare anche tu.

«Quello che vogliono diventare tutti i giovani ciclisti, vorrai dire. Se poi lo diventerò non lo so, non ci voglio pensare. Sono determinato e appassionato, per tentare di realizzare il mio sogno ho anche lasciato perdere Chimica all’università. Di avere del talento lo so anch’io, ma talvolta può non bastare».

Essere considerato più degli altri ti ha mai pesato?

«No, mai. Anzi, mi ha sempre fatto piacere. Ancora oggi mi dico che nelle categorie giovanili non può essere venuto tutto per caso, che quello che ho fatto una volta posso farlo anche una seconda e così via. E’ come se mi fossi aggrovigliato, devo sciogliermi e rompere nuovamente il ghiaccio. Le gare iniziano a mancarmi, io corro per il brivido della competizione e non vedo l’ora di ricominciare».