Tiberi, Amadori ti osserva: «La Trek è la squadra giusta per me e partecipare ad Avenir e mondiali non mi dispiacerebbe»

Tiberi
Antonio Tiberi in maglia Trek-Segafredo, squadra con cui è passato professionista nel 2021
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L’anno scorso gli era toccato addirittura Vincenzo Nibali, quest’anno invece nel ritiro spagnolo di Altea è finito in camera con Toms Skujins, vittoria più importante della carriera la Tre Valli Varesine del 2018 battendo in volata Pinot. Antonio Tiberi, tuttavia, dice che la differenza di palmarès tra Nibali e Skujins non lo interessa più di tanto, «perché da ogni corridore, specialmente dai più esperti, si può, anzi si deve, imparare qualcosa». 

Però per te Nibali, tornato all’Astana, non era un semplice compagno di squadra.

«Come potrebbe? Innanzitutto è un fuoriclasse, già questo lo distingue da tantissimi altri corridori del gruppo. E poi ci conosciamo da anni: sua moglie è originaria di un paese non lontano dal mio e quindi, durante le feste natalizie, Vincenzo veniva con la famiglia e abbiamo pedalato insieme. Fu Johnny Carera, procuratore di entrambi, a metterci in contatto la prima volta».

Cosa ti ha colpito di Nibali?

«Di quest’anno un episodio, minimo ma indicativo. Eravamo al Giro di Lussemburgo e lui ha forato proprio mentre stavamo per imboccare un tratto di salita decisivo. E’ stato un attimo, ho incrociato il suo sguardo: di una serenità glaciale, come se non fosse successo niente. Ha l’esperienza di un corridore maturo e la tranquillità di un campione che non deve dimostrare più niente a nessuno».

C’è chi sostiene che vi assomigliate molto. Entrambi meticolosi e seri, forti da giovani nelle cronometro e con molti margini di crescita per quanto riguarda le salite. Perfetti per le corse a tappe.

«Nibali è sempre stato uno dei miei riferimenti. E’ uno che ha sempre parlato poco e vinto tanto, pragmatico ma non per questo restio ad inventare, a provare, a immaginare. Da questo punto di vista molto simile ad Alberto Contador, il primo grande corridore che posso dire d’aver tifato».

Cosa ammiravi dello spagnolo?

«Nei suoi anni migliori aveva tutto: era il più forte in salita, uno dei migliori a cronometro, sapeva quand’era il momento di amministrare e allo stesso tempo non si faceva problemi a provare a far saltare il banco se non aveva alternative».

A chi credi di assomigliare di più?

«Con le dovute proporzioni, credo a Nibali. Sarebbe bello replicare un percorso come il suo, una crescita solida e costante che lo ha portato a conquistare tanto le classiche monumento quanto i grandi giri». 

A proposito, come ti sei trovato nelle poche classiche alle quali hai partecipato fino ad ora?

«Non benissimo, devo dire la verità. Un conto è vederle alla televisione, un conto è pedalare in gruppo. Lo stress è maggiore, si decide tutto quel giorno e non c’è possibilità di rifarsi. In più in quelle del Nord si aggiungono le difficoltà planimetriche: ostacoli, strade strette. Serve una malizia che per ora non mi appartiene e un fisico robusto che probabilmente non avrò mai».

Perché il tuo obiettivo rimangono le corse a tappe.

«Sì, sono quelle per cui mi sento più portato. In quelle brevi ho già fatto vedere qualcosa, come il terzo posto al Giro dell’Ungheria di quest’anno. Ad un grande giro non ho ancora mai partecipato: credo possa piacermi, ma prima voglio farmi un’idea precisa».

Accadrà già quest’anno, magari al Giro?

«Potrebbe accadere già quest’anno, ma non si è parlato né di Giro né tantomeno di Tour. Se la stagione andrà bene e io risulterò convincente, la squadra dovrebbe farmi debuttare sulle strade delle Vuelta. La Spagna mi piace, in più molti compagni mi hanno descritto la Vuelta come una gara dura ma divertente. Sarebbe bello, non lo nego».

Certo che non dev’essere facile voler puntare alle corse a tappe nell’era di Pogacar, Roglic, Evenepoel e Bernal.

«Il livello è altissimo, me ne sono accorto quest’anno. Ed è così anche nelle gare di secondo piano, ormai di corse facili non ne esistono più. Però il mio obiettivo rimane sempre quello: arrivare a competere coi migliori». 

Sei giovane, il tempo non ti manca, d’altronde sei passato professionista soltanto all’inizio del 2021. Com’è andata la prima stagione?

«Pensavo peggio, se devo essere sincero. Sono soddisfatto, mi rendo conto di andare molto più forte di un anno fa. Dura è dura, ma quello un ciclista lo mette in conto. Però ho la fortuna di far parte di una squadra compatta, variegata, forte ed esperta».

Tra l’altro la Trek è una delle formazioni che punta maggiormente sui giovani: oltre a te ci sono anche Baroncini, Hellemose, Hoole, Brustenga, Skjelmose, Simmons ed Egholm.

«E’ vero, l’ho scelta anche per questo. Quel che più conta è che ci danno tempo, hanno pazienza e non esigono da noi risultati fin da subito. Ci permettono di affrontare un bel calendario senza farci fare i gregari a prescindere. Insomma, non potrei chiedere di meglio. Se avessi scelto un’altra squadra probabilmente la mia crescita sarebbe stata maggiore, ma non così sana».

Johnny Carera è convinto che tu, nel giro di qualche anno, possa vincere il Giro. Sei d’accordo?

«Sarebbe stupendo, è la corsa dei miei sogni, quella che popola i miei ricordi d’infanzia. E poi ormai l’Italia l’ho girata quasi tutta: sono nato nel Lazio, ho corso per la Franco Ballerini in Toscana e per la Colpack in Lombardia. La maglia rosa è l’obiettivo principale della mia carriera, se e quando sarò in grado di vincerla non posso prevederlo io adesso. Sono giovane, devo ancora formarmi».

Per molti sei fin troppo giovane. Il tuo passaggio tra i professionisti dopo una sola stagione tra i dilettanti con la Colpack ha suscitato diverse polemiche.

«Questo tema mi sta a cuore, mi sento coinvolto. Io voglio andare controcorrente: non bisogna demonizzare quei ragazzi che, come me e tanti altri, hanno avuto l’opportunità di passare professionisti a vent’anni. Noi siamo i primi a chiedere calma, pazienza e lucidità nei giudizi, noi siamo i primi ad essere consapevoli che di Evenepoel e di Pogacar ce ne sono soltanto due».

Perché ritieni d’aver preso la decisione giusta?

«Il mondo dei professionisti è estremamente diverso da quello delle categorie giovanili. E’ sempre ciclismo, siamo d’accordo, ma cambia tutto. Capire quello che si deve fare e il modo in cui va fatto, prendere confidenza coi nuovi ritmi, non è facile. Prima si comincia e prima si può sperare di ritagliarsi il proprio spazio». 

Ma così si rischia di velocizzare un processo che, al contrario, avrebbe bisogno di tempi più dilatati.

«Di certo non si può generalizzare. Io non sto parlando a nome del movimento italiano, ma di Antonio Tiberi: io mi sono sentito pronto per passare professionista a vent’anni e l’ho fatto».

Ma avrai avuto degli indizi che ti hanno fatto propendere per questa decisione.

«Nel 2020, nei pochi mesi con la Colpack, ho chiuso al terzo posto la cronometro dei campionati italiani e al decimo la prova in linea. Al Giro ho fatto terzo nella prima e decimo nell’ultima tappa, a pochi secondi dal 15° della classifica generale. Ho vinto in solitaria San Vendemiano rifilando quasi un minuto agli inseguitori. Quel successo è stato indicativo: dopo 175 chilometri mi sentivo meglio che alla partenza». 

Tiberi,in salita ti difendi bene, ma nelle cronometro sei stato campione del mondo tra gli juniores ad Harrogate nel 2019. Quale delle due preferisci?

«La cronometro, senza dubbio. Però riconosco che muoversi in salita può essere più facile: non sei solo, puoi seguire la ruota di qualche avversario prendendo il suo ritmo, puoi rifiatare. Comunque so benissimo che, se voglio vincere il Giro, dovrò migliorare su entrambi i terreni».

Conosci già il tuo calendario?

«Comincerò alla Valenciana, poi andrò all’Uae Tour: voglio riscattare la brutta caduta nella cronometro di quest’anno. Dopodiché tornerò in Italia, dove mi aspetta il Laigueglia. Della possibilità di partecipare alla Vuelta ho già detto, per il resto dovrei essere al via di diverse brevi corse a tappe come Romandia, Giro di Ungheria e di Polonia».

E all’eventualità di essere il leader della nazionale di Marino Amadori ci pensi?

«Correre in nazionale è sempre bello, quindi perché no? Non ne abbiamo ancora parlato, ma se si creassero i presupposti sarei contento. Avenir e mondiali, mica male…»