Il bilancio di Johnny Carera: «Cunego oggi vincerebbe il triplo, Pogacar non è ancora al massimo. E Nibali è leggendario»

Carera
Alex Carera, Johny Carera e suo figlio Lorenzo in una foto d'archivio
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Johnny Carera sognava un futuro diverso: da corridore professionista, magari, visto che tra i dilettanti vinse classiche come la Freccia dei Vini e la Vicenza-Bionde. Ma l’offerta non arrivò e lui, dopo aver contribuito a far crescere aziende come Rudy Project, si è dato alla carriera di procuratore. Non da solo, ma col fratello Alex, di dieci anni più piccolo, che all’epoca si stava laureando in Economia.

Com’è nata l’idea, Johnny?

«Eravamo alla metà degli anni ’90, un numero sempre maggiore di corridori mi chiedeva di assisterli nella firma dei contratti con le squadre e gli sponsor. Mi dissi: forse c’è del margine per avviare un’attività».

Chi fu il primo?

«Paolo Valoti. Mi sembra passato un attimo, sono passati 25 anni».

A chi sei rimasto più legato?

«Banale dirlo, forse immeritato anche nei confronti di tanti miei assistiti che in discorsi del genere si finisce per dimenticare, però penso a Vincenzo Nibali».

Perché proprio lui?

«Alla fine ci si lega maggiormente a quelle persone con cui passiamo più tempo insieme. Io Vincenzo l’ho conosciuto da ragazzo, l’ho visto diventare professionista, campione, marito e padre».

Qual è il tuo giudizio su di lui?

«Inevitabilmente di parte, andiamo anche in vacanza insieme. Per me è una leggenda: per successi, piglio, longevità. Un esempio per tanti ragazzi che seguo».

Cosa dobbiamo aspettarci da lui all’Astana?

«Non deve dimostrare nulla a nessuno, eppure corre ancora per vincere e se la corsa non va come vorrebbe ci rimane male. Secondo me ha ancora qualche colpo in serbo».

Johnny Carera e Vincenzo Nibali alla Liegi-Bastogne-Liegi 2019

È rimasto colpito da questa nuova generazione di corridori, del quale Pogacar è il vessillo indiscusso. Anche lo sloveno è con voi. Cosa pensi di lui?

«Lo segue di più Alex, mio fratello. Posso dire che è incedibile, non so se ho mai visto niente del genere. Può vincere tutte le classiche, Roubaix compresa».

E se fosse già al massimo del suo potenziale?

«Sarebbe già incredibile, ma io credo che sia soltanto all’80% delle sue potenzialità. Gli viene tutto naturale, come a Nibali: se vogliono mangiare una pizza la mangiano, non so se mi spiego».

Tiberi, invece, a che punto è?

«Lasciatelo crescere, la Trek è una squadra che non spreme i corridori. Se tutto va come deve andare, secondo me tra qualche anno potrebbe lottare per la vittoria di un grande Giro».

Addirittura?

«Sì, è un grande talento ed è perfetto per quelle gare. Quadrato, completo, resistente: dategli tempo e arriverà il suo momento».

Qual è il tuo più grande rimpianto?

«Me ne vengono in mente due. Intanto dico Damiano Cunego: poteva vincere il triplo, ha scontato l’essere trasparente in un ciclismo che non lo era. Oggi avrebbe vinto il triplo».

E il secondo?

«A costo di andare controcorrente, dico Danilo Di Luca. Era un bravo ragazzo, ti dava tutto. Poi ha incontrato le persone sbagliate e non ha saputo domare la propria ambizione».

Qual era il vostro rapporto?

«Buono, ci sentiamo ancora un paio di volte all’anno. Dicendo questo, tuttavia, non mi dimentico che non fu trasparente nemmeno con noi. Purtroppo, una volta persa la lucidità, si commette un errore dietro l’altro. Ma non meritava una fine del genere. Un peccato».

Secondo te perché la figura del procuratore continua ad essere vista di cattivo occhio da tanti addetti ai lavori?

«Nel professionismo non respiro questa aria, sinceramente. Parlo con molti team manager e ci troviamo d’accordo su tanti discorsi. Tra i dilettanti, invece, il discorso cambia».

Perché?

«Generalizzo per comodità: io credo che molti direttori sportivi non digeriscano il fatto che una figura diversa dalla loro influisca sulla carriera del ragazzo».

In che maniera influire, allora?

«Ascoltando, consigliando, aiutando i corridori a prendere certe decisioni. Oggi il professionismo è molto più complicato e sfaccettato di una volta, non scordiamocelo».

Lavorate anche coi giovani e le donne?

«Sì, segue tutto mio figlio Lorenzo, che aiuta il sottoscritto, mio fratello e Andrea Noè. Però non ci piace l’esasperazione, non abbiamo bisogno di far la pelle ai ragazzi di vent’anni per arrivare alla fine del mese».

Una critica ad alcuni colleghi?

«Diciamo che se la nostra figura non viene ancora accettata pienamente, una parte della colpa ce l’hanno quei procuratori che non tengono al benessere dei loro assistiti».

Qual è il momento più difficile della vostra attività?

«Dire la verità ad alcuni ragazzi: che purtroppo non sono sufficientemente bravi per fare questo mestiere e farebbero bene a cercarsene un altro. Non tutti siamo fatti per essere atleti di primo piano».

Ti è successo?

«Qualche volta sì, anche contro i miei interessi mi sono sentito in dovere di farlo. Ma non ci si abitua mai, ogni volta è un colpo al cuore».