«Finché lotto per la vittoria, i sacrifici non mi pesano»: intervista a Davide Dapporto

Dapporto
Davide Dapporto della InEmiliaRomagna in allenamento (foto: Massimo Fulgenzi Photo)
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Michele Coppolillo si starà sfregando le mani: perso Manuele Tarozzi, idealmente il leader della inEmiliaRomagna che dalla prossima stagione correrà tra i professionisti con la Bardiani, ha trovato Davide Dapporto, classe 2001, vincitore quest’anno al Trofeo Chianti Sensi e autore di una marea di piazzamenti (2° al Tortoli, 5° al Primavera e al Casentino, 6° a Pieve al Toppo, 7° a Roncolevà e a Castellucchio).

Più che trovato, sarebbe meglio dire ritrovato. Dapporto vive a Cassanigo, a due passi da Faenza, dove la inEmiliaRomagna ha la sede. Conosceva tutti, eppure decise di accettare l’offerta del Team Monti. Nell’andargli male, dato che la squadra non vide mai realmente la luce, gli è andata bene: con Michele Coppolillo ha capito che il professionismo, per lui, non è un miraggio.

Pensi mai a questa ipotesi, Davide?

«Cerco di farlo il meno possibile. I dilettanti che realizzano il loro sogno sono pochi, in una stagione può succedere di tutto e non voglio logorarmi con obiettivi asfissianti. Mi concentro soltanto su quello che possono controllare: come mangio, come dormo, come mi alleno, come mi muovo in gruppo. Magari non basta, ma almeno non avrò rimpianti».

E se non dovesse bastare?

«Me ne farei una ragione. Il ciclismo continuerà ad essere la mia priorità per i prossimi due anni, quelli che mi mancano per completare il mio ciclo tra gli Under 23, poi tirerò le somme. Studio Economia a Bologna anche per questo».

Riesci a conciliare sport e studio?

«Non è semplice, ma l’ho voluto io. Spegnere il cervello e pensare soltanto allo sport è una prospettiva che non mi è mai piaciuta. Alle superiori ho fatto l’Iti, 100 su 100 alla maturità, ma mi ero già accorto che la meccanica non faceva per me. L’Economia invece sì: mi piace tenermi aggiornato, non è soltanto la materia che devo studiare per laurearmi».

E’ più faticoso studiare o pedalare?

«Sono due esercizi diversi. All’Università sono al secondo anno, ho chiuso il primo avendo dato tutti gli esami, spero di ripetermi quest’anno. Non farò né viaggi né vacanze, d’inverno: tra lo studio e i primi allenamenti, il tempo passa in fretta e non basta mai. La vita del corridore, almeno finché vinco e arrivo davanti, non mi pesa».

Quanto conta vincere per te?

«Tanto. Dà un senso agli allenamenti e ai sacrifici, è appagante, si ha la sensazione di non perdere tempo. A vent’anni qualche sogno ci vuole, anche se quello di diventare un ciclista professionista ha una scadenza che prima o poi va presa in considerazione, e la vittoria serve ad alimentare il motore. Mettiamola così: non esprimermi come vorrei mi risulta più pesante di qualsiasi sacrificio».

Quest’anno puoi stare più sereno, il bilancio è ottimo.

«Assolutamente sì. Ci speravo, ma se devo essere sincero non me l’aspettavo. E’ andato tutto bene, per una volta nella mia vita. Tra i dilettanti avevo iniziato male, scegliendo il Team Monti e rischiando di ritrovarmi a piedi a stagione già cominciata, con gli organici al completo».

Che ricordo serbi di quei mesi?

«Non negativo, dico la verità. Il progetto è naufragato, ma io ho trovato persone competenti. Era una sfida di alto profilo, affascinante. Non mi pento della scelta che ho fatto, anche se a volte mi chiedo: abito a due passi da Faenza e conosco l’ambiente della inEmiliaRomagna, perché non l’ho presa in considerazione fin da subito?»

Ti sei dato una risposta?

«Ancora no. L’importante, credo, è trovarsi bene e avere la consapevolezza di far parte di una formazione valida e in crescita. E poi c’è Michele Coppolillo, non uno sprovveduto: non sempre andiamo d’accordo e capita di confrontarsi duramente, ma il rispetto è assoluto».

Michele Coppolillo, direttore sportivo della inEmiliaRomagna

Ti rivedi in lui?

«Non saprei, non c’ho mai pensato. Di certo come lui do tanta importanza alla lealtà, un principio per me imprescindibile. Credo d’essere molto leale, il pregio a cui tengo di più. Un difetto? Le mie conclusioni sono spesso affrettate, dovrei essere più riflessivo e ragionare di più su quello che è successo».

Ripensi mai, a questo proposito, ai problemi al cuore e all’incidente dell’anno scorso?

«Come no, è inevitabile. Tra il 2018 e il 2019 mi viene diagnosticata una tachicardia parossistica, pensavo che l’operazione fosse meno invasiva e invece mi ha dato da fare. Mi ha seguito il dottor Corsetti, mi spiegò che con gli sbalzi della pressione, ad esempio scollinando e buttandosi in discesa, sarei potuto anche svenire a causa del battito irregolare. Ma ho affrontato meglio quella seria operazione che l’incidente all’Astico-Brenta dell’anno scorso».

Addirittura?

«Sì, perché ero consapevole che prima o poi sarebbe arrivato quel momento. Invece un anno fa successe tutto all’improvviso: stavo risalendo il gruppo, eravamo all’imbocco della Rosina e in un attimo mi si materializza davanti un pedone di spalle che stava camminando a bordo strada mentre ascoltava della musica. Una brutta botta, di corsa all’ospedale di Vicenza, trauma cranico e altri acciacchi. Mi sono detto: succedono tutte a me…»

Come corridore come ti definiresti?

«Un passista veloce, mi piacciono le volate a ranghi ristretti e mi difendo sulle salite brevi. Sogno il Giro delle Fiandre, di gran lunga la mia corsa preferita. Durante i mondiali, immaginandomi in gruppo in mezzo a quelle migliaia di tifosi, avevo i brividi pur essendo seduto sul divano. A volte penso alla felicità che deve aver provato Ballan a vincere il Fiandre».

Perché proprio Ballan?

«Perché è il corridore a cui mi sono sempre ispirato, quand’ero un bambino in un anno e mezzo gli ho visto conquistare la Ronde e il mondiale a Varese. Sono ricordi indelebili. Quando coi miei fratelli giravamo intorno a casa, io ero sempre Ballan. Ci facevamo i dorsali coi numeri usando la carta dell’Estathé, per tanti anni la scritta che campeggiava sulla maglia rosa del Giro».

Tra l’altro pedalano anche i tuoi fratelli.

«Noemi, la maggiore, ha cinque anni in più di me e si è fermata tra le juniores. Così come Giona, che di anni in più di me ne ha quattro. Poi ci sono io e infine c’è Pietro, che dal prossimo anno passerà negli juniores. Correvano anche mio babbo e mio nonno, il primo ha fatto quattro anni da dilettante e poi ha smesso».

Hai scelto il ciclismo solo per influenze familiari?

«Non saprei dirtelo. Ricordo che guardavo le corse insieme alla mia famiglia e ogni volta mi colpiva lo scintillio delle maglie dei corridori. Ricordo anche il Giro che arriva a Faenza nel 2009: mi pare che vinse Bertagnolli, sicuramente in maglia rosa c’era Menchov. Sono proprio contento d’aver vissuto un’infanzia del genere».