Rocchetta: «Intanto sarò stagista con Savio. Ho già fatto il magazziniere, se non passo professionista andrò a lavorare»

Rocchetta
L'arrivo vittorioso di Cristian Rocchetta al GP Città di Pontedera (Foto: Riccardo Scanferla)
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Cristian Rocchetta stava proprio pedalando quando, era il 17 maggio 2019, gli venne notificata una squalifica per doping che avrebbe potuto farlo smettere di pedalare per sempre. A livello agonistico, si capisce: essendo nato nel 1998, trascorrere qualche stagione lontano dalle corse a 21 anni significa praticamente dover sventolare bandiera bianca e imboccare un’altra strada. Più di due anni dopo, Rocchetta sta ancora provando a passare professionista: la ferita brucia ancora, ma non era letale.

Cosa successe, Cristian?

«Successe che io, soffrendo d’asma da quando ero bambino, in quei giorni che precedevano il controllo fatale al termine del Trofeo Visentini mi ritrovai particolarmente otturato e decisi di acquistare uno spray al banco della farmacia: il Rinofluimucil».

Un medicinale vietato?

«Non è così semplice, altrimenti non ci sarei cascato. Essendo un farmaco da banco facilmente acquistabile in farmacia e presente comunemente in molte case, io l’ho comprato senza farmi molte domande. Non c’erano controindicazioni per l’attività agonistica».

Quindi si trattò di negligenza.

«Esatto, infatti nel processo del settembre del 2019 mi venne imputata la negligenza, cinque mesi di squalifica che scaddero a dicembre di quell’anno. Avrei dovuto leggere il bugiardino, la sostanza imputata era il tuaminoeptano».

Rocchetta, ti senti cambiato dopo aver attraversato un’esperienza del genere?

«Non saprei descrivere in che modo, ma dico di sì, lo sento. Come in tutte le storie del genere, c’è chi mi è rimasto vicino e chi mi ha voltato le spalle. Però la vicinanza che mi è stata dimostrata non la scordo, vuol dire che negli anni ho dato prova che di me ci si può fidare».

Quali sono, secondo te, i tuoi meriti più grandi da questo punto di vista?

«Non mi piace elogiarmi, preferirei fossero gli altri a descrivermi. In me, tuttavia, ho sempre sentito una grande passione per il ciclismo. Mi piace pedalare, mi piace correre in bicicletta, mi piace vincere».

Possibilmente in volata, visto che sei un velocista.

«Battere tutti gli altri allo sprint, per me, è magnifico. Non soltanto il modo a me più congeniale, visto che sono alto circa uno e settanta e peso sui sessantacinque chili. Ma proprio il più bello, il più significativo, il più emozionante».

Qual è il tuo velocista di riferimento?

«Senza dubbio Mark Cavendish: ha vinto tantissimo, è in auge da quasi quindici anni e fisicamente ci assomigliamo, entrambi compatti ed esplosivi. E tra le tante cose che gli invidio c’è la Milano-Sanremo, la mia corsa preferita».

Quindi le gare che piacciono a te devono essere lunghe?

«In parte sì, l’idea di scavare fino in fondo al mio corpo mi riempie di soddisfazione. E poi devono essere anche impegnative: non dico da scattisti o scalatori, sarebbe troppo, ma qualche salitella non mi dispiace. Vedere gli altri velocisti che si staccano e io che resisto è un’ulteriore iniezione di fiducia».

A proposito di fiducia, Rocchetta: quella nei tuoi mezzi non ti manca…

«Non credo sia un difetto, specialmente quando si è consapevoli dei propri mezzi senza essere degli esaltati. Mi piace vincere, mi piace la competizione, mi piace lottare e possibilmente battere i miei avversari. E sono un ragazzo molto determinato, anche se spesso la determinazione si trasforma in cocciutaggine ed esagero, sbagliando».

Ma senza questa convinzione non staresti ancora cercando una squadra tra i professionisti.

«E’ il mio sogno, non ci posso fare niente. Da piccolo giocavo anche a calcio, in porta, perché mi pareva di non dipendere da nessuno. E’ lo stesso motivo per il quale, poi, ho scelto il ciclismo. Ma il calcio non mi ha mai dato le stesse emozioni, tant’è che adesso lo seguo senza particolari ansie né coinvolgimenti».

Ma perché un corridore come te, che quest’anno ha vinto ben cinque corse, non è riuscito ancora a trovare una squadra tra i professionisti?

«Nonostante sia uno dei miei chiodi fissi, non so darti una risposta secca e convincente. Probabilmente perché non c’è. Sicuramente non sono stato fortunato: nel 2019 la squalifica per negligenza, nel 2020 la pandemia, al primo anno tra i dilettanti una stagione a metà regime poiché decisi di dare la precedenza alla scuola. E intanto il tempo passa e io ho già 23 anni».

Non si è fatto avanti proprio nessuno per te?

«L’Androni Giocattoli-Sidermec di Gianni Savio, con la quale correrò da stagista nella parte finale della stagione. Darò il massimo come ho sempre fatto, ma ormai la vita mi ha insegnato a non farmi troppe illusioni».

Rocchetta, hai un piano di riserva se il tuo sogno non si concretizzasse?

«Nessun piano di riserva, non esistono sogni di riserva o sogni di scorta. Io ne ho soltanto uno, quello di diventare un ciclista professionista. Se non si avvererà, pur restandoci male mi troverò un altro lavoro».

Quale?

«Pensarci adesso non m’interessa. E poi qualcosa si trova: nei mesi bui della squalifica feci il magazziniere e non salii mai in bicicletta perché soltanto vederla mi faceva stare male. Bisogna anche sapersi accontentare e rimboccarsi le maniche, quand’è necessario».

Rocchetta, davvero pensi così poco al tuo futuro?

«A cosa servirebbe? Il futuro che sogno, quello del professionista, me lo posso guadagnare soltanto facendo bene nel presente. Posso dire che secondo me nel ciclismo di oggi c’è troppa fretta, che considerare vecchio un ragazzo di ventitré anni è poco lungimirante, che alcuni procuratori contano più dei risultati. Ma alla fine non saranno queste riflessioni a farmi passare professionista, quindi tanto vale concentrarsi sugli allenamenti e sulle gare, no?»