AMARCORD/64 Giovannetti, l’impresa dimenticata: la sua Vuelta del 1990 fu l’inizio del rinascimento azzurro

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Il 1990 fu l’anno del risveglio per il ciclismo italiano, caduto in una sorta di torpore dopo l’era di Moser e Saronni. Di solito, l’inizio del “rinascimento” azzurro, almeno nelle grandi corse a tappe, si fa coincidere con il trionfale monologo di Bugno al Giro d’Italia. Ma prima di quell’impresa ce ne fu un’altra, più lontana e ora caduta quasi nel dimenticatoio: Marco Giovannetti vinse la Vuelta España, quarto italiano a riuscirci dopo Conterno (1956), Gimondi (1968) e Battaglin (1981).

All’epoca, le vicende del grande giro iberico erano piuttosto misconosciute in Italia. In tv ce n’erano labili tracce e anche sui quotidiani sportivi gli spazi dedicati erano ridotti all’osso. Si correva ancora fra aprile e maggio e il leader non vestiva di rosso ma di “amarillo” (giallo), alla maniera del Tour.

D lui si ricordava l’oro di Los Angeles nella 100 chilometri

Giovannetti era ricordato più che altro per l’oro conquistato nel 1984 alle Olimpiadi di Los Angeles nella 100 chilometri a squadre, in compagnia di Bartalini, Poli e Vandelli. Passato professionista, aveva rivelato una buona attitudine per i grandi Giri e per le salite, malgrado i 190 centimetri di altezza e gli 80 chili. 

Dalla stagione precedente correva con una squadra spagnola, la Seur, da cui aveva avuto un buon trattamento economico ma anche qualche problema di ambientamento. Il leader designato per la Vuelta era il trentaquattrenne Alvaro Pino, vincitore quattro anni prima. Giovannetti aveva il compito di spalleggiarlo ed entrare in qualche fuga. 

Il destino dell’italiano fu deciso proprio da un’evasione ben riuscita, al sesto giorno di corsa, in una tappa andalusa. I favoriti, in primo luogo Pedro Delgado, leader della corazzata Banesto, non se ne preoccuparono troppo. In giallo finì Gorospe, Giovannetti si sistemò in alta classifica e quando il leader temporaneo mostrò la corda, si impossessò del primato

Delgado lo attaccò in ogni modo, ma la sua capacità di soffrire era enorme

Nessuno tra gli spagnoli e gli assaltatori colombiani pensò che l’italiano potesse arrivare fino in fondo, sottovalutando la sua enorme capacità di soffrire. Nei giorni successivi tenne l’anima tra i denti, rintuzzando ogni attacco. Sui Pirenei, verso il traguardo di Estaciòn de Cerler, Delgado mise in testa il giovane scudiero Indurain, che batté un ritmo forsennato. Poi lo stesso “Perico” partì all’assalto e tutti furono ragionevolmente convinti che Giovannetti, con il suo fisico da corazziere, sarebbe affondato. Invece, lentamente ritornò sotto e chiuse senza danni.

L’insidia finale lo attendeva al penultimo giorno di corsa, una galoppata lungo cinque colli nei dintorni di Madrid. La sua leadership era a forte rischio, con Ruiz Cabestany a 24” e soprattutto Delgado (con la sua robusta rete di alleanze) a 1’28”. Lungo il terzo colle, gli attacchi di Perico lo misero sull’orlo dell’abisso, cedette una ventina di secondi ma rientrò in discesa. Sull’ultima salita, il Puerto de Navacerrada, Delgado tentò il tutto per tutto, la maglia gialla perse non più di venti metri poi, ancora una volta, si agganciò alla ruota dello spagnolo.

«Non so dove abbia trovato tutte quelle forze – mormorò sfinito sul traguardo – È stata una giornata terribile ma ce l’ho fatta». La Vuelta era sua. «Giovannetti grandioso», titolò in copertina Bicisport nel numero di giugno, uscito a Giro d’Italia già iniziato. Fra i protagonisti della corsa rosa, c’era anche l’eroe di Spagna, che praticamente fece tutti d’un fiato i due grandi Giri arrivando sul podio anche a Milano, dietro a Bugno e Mottet. E finalmente tutti capirono che era forte davvero.