TOKYO 2020 / Nibali, quarto assalto all’oro: «Noi azzurri, un branco di lupi. Il vaccino, Ciccone, Rio: le mie verità». E c’è una domanda stupida

Nibali
Vincenzo Nibali parteciperà alla sua quarta Olimpiade con la maglia della Nazionale.
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Arriva alle Olimpiadi da una strada diversa rispetto ai suoi compagni: gli altri quattro sono reduci da un periodo in altura e negli ultimi giorni hanno messo nelle gambe un po’ di ritmo-gara andando a correre alla Settimana Ciclistica Italiana in Sardegna. Lui ha lasciato il Tour de France dopo due settimane ed è tornato a casa: un giorno di recupero, un po’ di allenamenti a Lugano per poi ritrovare la squadra il 17, quando gli azzurri sono volati a Tokyo. Per Vincenzo Nibali è la quarta Olimpiade in carriera, e l’ennesima occasione in cui vestirà la maglia azzurra.

Hai avuto paura di non esserci?

«Non so bene che cosa sia successo, da dove sia partito tutto questo tam tam. Quello dell’Olimpiade è un progetto che parte da lontano: c’è tanta cura, si limano anche i dettagli, prima di prendere certe decisioni ci si parla a lungo, la rosa si costruisce nel tempo, e si costruisce sulla base di chi ha più punti nel ranking italiano. I nomi sono questi. Se nell’ultimo periodo salta fuori qualcuno che sta bene ma non fa parte della lista non può entrare, a meno che non succeda qualcosa di anomalo. Io a Pechino non dovevo andare, c’era Riccò. Poi Ballero fu costretto a chiamare me per la positività di Riccò. Altre volte c’è qualcuno che rinuncia, per i più svariati motivi».

Se non fossi stato in condizione avresti rinunciato?

«Questa è una domanda stupida».

Grazie. La risposta?

«Non è il corridore che sceglie. C’è un selezionatore. Io posso dirgli come sto, che cosa posso fare. Poi ci sono i tecnici che sono bravi a individuare un ruolo per ognuno. Se hai un portiere non lo metti in attacco. Nel ciclismo non è proprio così, ma in parte è così. L’anno scorso al Mondiale non stavo benissimo, nel finale ero davanti e Caruso mi ha chiesto se gli tiravo la volata, io ovviamente l’ho fatto».

Quattro Olimpiadi sono qualcosa di enorme per un atleta.

«Sì, sono tante. Ma sono state Olimpiadi con ruoli ben diversi e ben definiti, che corrispondevano a fasi diverse della mia vita. La prima volta, a Pechino, sono andato per lavorare nel gruppo, Ballero mi volle per tirare dall’inizio. Anche a Londra andai lì per lavorare per la squadra, non era un percorso adattissimo a me ma quando la causa chiama si risponde. La terza, a Rio, era la più indicata per me. La quarta è di esperienza: dicono che dovrei lasciare spazio ai giovani, vuol dire che non conoscono le dinamiche di una corsa come l’Olimpiade. L’esperienza in certi frangenti è tutto».

Torniamo a Rio. Quante volte hai pensato che avresti potuto avere quell’oro? Senti di avere un conto aperto con l’Olimpiade?

«No, nessun conto aperto e nessuna rivincita da prendere. E’ un ricordo, un ricordo che fa male ma che ormai è passato. Ma non è mai diventato un cruccio per me, sono altri che ci hanno ricamato sopra».

Chi parte favorito?

 «Li abbiamo visti anche al Tour. Van Aert ha dimostrato di andare forte dappertutto. Pogacar arriverà dalla sua seconda vittoria al Tour, bisogna vedere come si sentirà, potrebbe avere un rilassamento subito dopo, e comunque arriverà in Giappone all’ultimo minuto, un po’ di pesantezza c’è. Ma attenzione anche a chi non era al Tour, come Evenepoel».

Tu come stai?

«Sono contento di aver fatto due settimane di Tour. Mi è servito».

Fuglsang ha detto di aver sofferto il vaccino. E che anche tu lo hai sofferto. E’ vero, ne avete parlato?

«Ma sì, ne abbiamo parlato. Lui mi ha detto che dal vaccino si è sentito poco bene, che non è mai riuscito a ritrovare i suoi valori. Io la prima dose l’ho fatta subito dopo il Giro: ero morto, ma non so se per il Giro o per il vaccino. Non avevo più fame, ero a terra. La seconda dose l’ho fatta il giorno prima di partire per il Tour: mi sentivo un po’ scombussolato, ma non ho avuto febbre, neanche male al braccio».

Facciamo un gioco: vinci tu a Tokyo…

«Non è un gioco, e io non vinco. Io non vivo di illusioni. Se tutto va in un certo modo, se capita la giornata perfetta può anche darsi che io possa giocarmi le mie carte. Altrimenti io mi metto al servizio degli altri: è la logica del branco dei lupi, uno per tutti e tutti per uno. Quando ho messo piede in nazionale è la prima cosa che mi è stata insegnata».

L’Italia del calcio ha dimostrato che l’amicizia può colmare anche un eventuale gap tecnico.

«A volte può capitare che leggi la start list e dici: mamma mia questi… poi magari non fanno niente di che. Altre volte c’è una squadra meno blasonata, senza chissà quali nomi e invece vanno fortissimo. Dipende dalle condizioni di lavoro, dalla sintonia. Lo spirito di gruppo fa tanto, ti dà tanta più grinta».

Puoi scommettere sul fatto che sarete una squadra?

«Noi siamo una squadra, una squadra compatta. E’ così da sempre».

Al campionato italiano non è sembrato così fra te e Ciccone.

«Un’incomprensione può capitare: eravamo senza radioline e poi era un giorno così, stavamo lottando per le convocazioni, purtroppo è entrata una certa competitività per dimostrare che uno andava più forte dell’altro. Abbiamo sbagliato tutti e due, non è stato bello ma può capitare. Alle Olimpiadi no, là si corre come squadra. Non capiterà».

Vai a Tokyo per?

«La causa azzurra. Cos’altro?».