Roubaix, quanto ci manchi! Cronaca di un giorno “Felice” sulle pietre e nel fango

Felice Gimondi nella sua splendida e memorabile impresa della Parigi-Roubaix 1966, in una foto d'archivio
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Oggi si sarebbe dovuta correre la Parigi-Roubaix. Tutti noi appassionati di ciclismo abbiamo un legame simbiotico con le Grandi Classiche del nostro sport. Se di solito ci emozioniamo davanti a un numero dei fuoriclasse del pedale, nello scenario unico del pavé e del fango, queste bellissime sensazioni raddoppiano e si moltiplicano. Noi di quibicisport.it ricordiamo l’Inferno del Nord e in questa domenica senza Roubaix – tornerà, si spera, il 3 ottobre 2021 – vi proponiamo un racconto straordinario del nostro direttore Sergio Neri. Il viaggio nella Roubaix trionfale di Felice Gimondi, il 17 aprile 1966. Salite a bordo della macchina del tempo di Bicisport. L’avventura inizia..

Viaggio con Enrico Ameri. Da poco la corsa è andata a destra e si è infilata nel suo tradizionale quanto spietato sentiero di pietre luride per il fango e scivolose. Pioviggina. Il cielo si è fatto scuro e sembra abbassato sopra di noi.
Una gobba d’asino. Lastre sconnesse, logorate, sbilenche. E ai lati del sentiero pozzanghere di terra e di carbone.
Chi scivola dalla gobba della strada si invischia nella melma. Chi resta sul pavé rischia dirompersi i polsi nella presa del manubrio.
Spira un forte vento di traverso.
Ad Arras scendiamo, precedendo di poco la corsa, per un panino nella vasta birreria già colma di gente che al caldo aspetta. Brucia una stufa nel centro della sala che puzza di birra e di fritto. Sul banco di rame una donna scodella quel che ha: ce ne andiamo tornando nella bufera che annuncia sulla strada l’arrivo della corsa. Gruppo in fila.

Roubaix: cronaca memorabile dal trionfo di Gimondi nel 1966

Mancano 40 chilometri al traguardo e solo all’interno della vettura si vive. Fatichiamo per sbrinare con un foglio di giornale i cristalli. La radio annuncia: è scattato De Boever sulla Costa di Mons.
Questa fuga non è degna della Roubaix.
Ma il tentativo del belga è una scintilla che manda in aria un barile di polvere da sparo. Dancelli lo raggiunge.
La radio di bordo incalza: Dancelli e Gimondi hanno staccato il gruppo ed hanno raggiunto De Boever.
Non basta. Poco dopo, mentre sull’onda della trasmissione si riversano le scariche del maltempo, la voce annuncia: Gimondi è solo. Staccato De Boever, egli ha piantato, adesso, anche Dancelli.
Le parole sono gonfie d’enfasi. L’azione di Gimondi trascina all’entusiasmo anche i francesi i quali tra gli inseguitori del campione pur contano ancora i loro Poulidor.
Gimondi è il padrone della corsa, la gente sulla strada ormai lo aspetta e si infiamma al suo passaggio. Sembra un levriero lanciato sulla preda: ormai chi lo ferma?

Sulla scia di Gimondi tra acrobazie e un’azione impetuosa

Io passo dalla vettura al sellino di un motociclista. La corsa è racchiusa in questa superba azione di Gimondi.
Dancelli e De Bever insistono con disperazione balzellando sulla strada gobba. Il vantaggio di Gimondi aumenta.
Non ha più né berrettino né mantellina. Il suo viso è una maschera di schizzi di fango, sulla maglia si indovina a fatica, in alcune chiazze, il coloro celeste. Gimondi mulinella e spinge, accarezza la strada sulla quale la moto compie scivolate spaventose. Controllo il vantaggio: è salito a due minuti e lo grido a Gimondi facendomi il largo tra gli altri motociclisti che lo circondano. Chi lo fotografa in viso, chi gli piazza l’obiettivo della macchina da presa accanto alla moltiplica per documentare lo spettacolo di quella pedalata, chi lo riprende dal basso, chi dall’alto. Tutti gli operatori compiono acrobazie indescrivibili, al seguito di una cavalcata che conquista pian piano la periferia di Roubaix.
Ma la strada è sempre un inferno. Quanto, urla Gimondi? Due minuti, ripeto mentre un collega al fianco, dalla sua moto che mi supera, corregge la mia informazione già mutata. I minuiti sono tre e stanno salendo ancora.
Gimondi riprende d’impeto la sua azione. Il sentiero è tormentato da un fondo impossibile. Un motociclista francese, davanti a me, picchia contro una pietra per colpa del fango e piomba sulla strada mentre la moto si schianta nel campo. La gente lo raccoglie esanime e lo soccorre ma la corsa continua. Il quadro è questo.
Gimondi pedala a quaranta di media prevenendo da lontano le insidie della strada. Egli balza da una banchina all’altra, entra nelle pozze di acqua: ai lati delle sue ruote si alzano come corte ali nere gli spruzzi del fango. Gimondi prosegue.
Il suo vantaggio è salito a quattro minuti quand’egli scavalca la collina delle pietre più cattive, a ridosso del traguardo.
Calza un paio di guanti blu che lo proteggono dall’aria gelida sulle mani. Manovra il manubrio con fermezza, aumenta prodigiosamente la sua pedalata e ride.
La corsa passa accanto alle case. Si infila nei borghi di campagna, costringendo la gente ad incollarsi al muro tanto è angusto lo spazio e tanto è folle la carovana che circonda Gimondi.
Quattro minuti.
Gimondi irrompe sulla pista nera del velodromo. Sono i fari gialli delle moto che lo precedono ad annunciarlo.

È solo. Alza le braccia insudiciato com’è e ride. Ha vinto.
Ed è felice, di nome e di fatto.