Il romanzo della Sanremo: dalle lacrime di Dancelli al volo di Moser, cinque momenti da ricordare

Francesco Moser sul podio da vincitore della Milano-Sanremo 1984, in una foto d'archivio
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Tutti sognano di vincerla, perché in teoria non si nega a nessuno. C’è chi vagheggia azioni da lontano, chi sogna lo scatto assassino sul Poggio, chi punta sul volatone. Tutto è sempre possibile in quei 300 chilometri scarsi che dal 1907 annunciano ogni anno la primavera.

Il romanzo della Milano-Sanremo, che sabato va in scena per la 112ª volta, è strapieno di episodi memorabili, vittorie epiche e sconfitte abissali. Ne forniamo qui una galleria minima, a partire da un’edizione tra le più dense di significati, quella del 1946, che dopo l’orrore bellico non fece ripartire solo il ciclismo, ma per certi versi l’Italia intera.

1946: Fausto Coppi, 150 chilometri da leggenda

Ma dove va Coppi? Così si condanna a perdere. Sono in molti, tra giornalisti e addetti ai lavori, a giudicare una follia la fuga precoce di Fausto, partito subito dopo il via con quattro compagni di avventura, tra i quali l’unico quotato è il francese Tesseire. Cominciare la Sanremo a quel modo sembra una sorta di suicidio agonistico

In quei primi vagiti ciclistici del dopoguerra, nessuno immagina che proprio quel giorno Fausto Coppi, già vincitore del Giro nel 1940 e primatista in carica dell’Ora, sta cominciando a pedalare su un altro pianeta. 

La fuga a quattro regge fino al Turchino, che a quell’epoca è un mostro sconnesso e brutale. Dopo poche rampe, al mozzo di Coppi resta soltanto un Teisseire sempre più in difficoltà. Tanto che in vetta, lì dove si vede il mare, Fausto è da solo

Mancano circa 150 chilometri, un’eternità. Coppi però scivola sulla Riviera come se pedalasse sul velluto. Dietro di lui Tesseire non ha mollato e resta a galleggiare tra il battistrada e il gruppo inseguitore, nel quale si danna Bartali.

Passano i capi Mele, Cervo e Berta, intervallati dai tratti costieri stracolmi di gente. Quando Coppi arriva a Sanremo, Tesseire è a un quarto d’ora, il gruppo di Bartali a quasi 20 minuti. Il mito del Campionissimo si avvia a nascere.

1970: spezzato il dominio straniero, Dancelli è nella storia

L’edizione del 1970 è una delle più intense, almeno per il ciclismo italiano. Dopo diciassette anni, viene interrotto il dominio straniero sulla Classicissima, segnato anche dalla prepotente ascesa di Eddy Merckx. A costruire l’impresa è Michele Dancelli, un ventottenne bresciano a cui, malgrado una cinquantina di vittorie, pochi riconoscono lo status di campione. 

Per battere Merckx (che quel giorno si presenta al via debilitato) bisogna attaccarlo da lontano. Questo il piano di Dancelli, che dopo neanche 100 chilometri di corsa, va via in un gruppo di 18 in cui albergano pezzi grossi come Leman, Van Looy, Zilioli, De Vlaeminck, Godefroot e Bitossi. 

L’agguato di Dancelli scatta al traguardo volante di Loano, 70 chilometri al traguardo. Sprona il suo gregario Chiappano a fare lo sprint, ne sfrutta la scia e in pratica si fa lanciare in fuga, prendendo rapidamente il largo. Ad Alassio parte in caccia De Vlaeminck, che arriva fino a 1’45”, poi molla. 

Il fuggitivo sembra volare, ma nella piana che precede il Poggio va in crisi e vede crollare il suo vantaggio a poco più di un minuto. L’Italia intera (la Sanremo di quell’anno si rivela un seguitissimo evento televisivo) lo spinge sulle rampe del Poggio, dove si rianima prodigiosamente e scaccia gli ultimi fantasmi. 

Il finale è un diluvio di lacrime. Dancelli comincia a piangere a qualche centinaio di metri dal traguardo e continua sul palco. Quello sfogo irrefrenabile, immortalato da fotografi e tv, entrerào per sempre nella storia della corsa. 

1971: Gimondi attacca sul Poggio, Merckx ruggisce e va a vincere per la quarta volta

Dopo l’impresa di Dancelli, il ciclismo italiano nell’edizione 1971 sogna il bis. Il detentore però è assente per un grave infortunio patito nei giorni precedenti, alla Tirreno-Adriatico. E poi c’è di mezzo un dettaglio non proprio insignificante: Merckx, che a neanche 26 anni cerca il suo quarto trionfo sulla Riviera, a capo della sua nuova squadra, l’italiana Molteni, nella quale lo hanno seguito i suoi migliori gregari. 

Alla vigilia, Gimondi si defila: «Non credo che sarò tra i protagonisti, cercherò magari di infilarmi in qualche fuga». E in effetti a una cinquantina di chilometri da Sanremo, Felice è in avanscoperta insieme agli italiani Ballini e Soldi e a due gregari di Merckx, Bruyère e Spruyt. 

In pratica, quella di Gimondi è una fuga solitaria perché, per motivi intuibili, nessuno gli dà uno straccio di cambio. Finché, ai meno 30, gli piomba addosso Merckx, con a ruota Motta e lo svedese Gosta Pettersson (che pochi mesi dopo vincerà il Giro d’Italia). 

Merckx e Gimondi davanti: in quegli anni è la sfida più bella, anche se il vincitore è quasi sempre il belga. La resa dei conti arriva sul Poggio, gremito all’inverosimile. Eddy mette i suoi in testa a scandire il ritmo. Motta e Gimondi sono compagni di squadra nella Salvarani, ma nell’occasione evitano accuratamente di parlarsi. Così, mentre Motta, vittima di crampi, spera che nessuno dia fuoco alle polveri fino al viale di arrivo, a condannarlo è proprio Gimondi, scattando a 500 metri dalla vetta.

La reazione di Merckx è feroce: in poche pedalate prende la ruota del rivale e lo lascia sul posto. In cima al Poggio ha già 10” di vantaggio, che diventano 30 all’arrivo. Quarta Sanremo per il Cannibale (a fine carriera saranno sette, record assoluto), a Gimondi non resta che accontentarsi della piazza d’onore.

1984: la picchiata-spettacolo di Moser

Sanremo 1984: Moser bussa alle porte della Classicissima per la dodicesima volta. Almeno in tre-quattro occasioni ha visto il successo a un passo, ma la corsa per lui si è sempre rivelata stregata. A quasi 33 anni tenta ancora, ma stavolta ha argomenti nuovi: qualche settimana prima, a Città del Messico, ha frantumato il record dell’Ora, pedalando su una bici mai vista e palesando una condizione fisica strepitosa. 

Difficile non metterlo tra i favoriti, insieme al nemico Saronni e agli stranieri Lemond, Raas e Kelly. Quando arrivano le fasi calde della corsa, Francesco è costantemente lì davanti. Ma è sul Poggio che deve temere gli agguati degli scattisti.

E infatti proprio lì vanno via Roche e Madiot, presto raggiunti da Millar. Moser però tiene botta e scollina con uno svantaggio minimo. A questo punto può scatenare la sua abilità di discesista: prende i tre e attacca, seguito soltanto, e per poco, dal modesto e bravissimo Chinetti.

Di forza e di destrezza, sfiorando i parapetti, Moser guadagna metri a ogni tornante. In pianura, all’ultimo chilometro, dà l’ennesimo saggio di una potenza e di uno stile inconfondibili. Kelly, che vince la volata dei battuti, gli rende 20 secondi.

1992: la maledizione di Argentin, Kelly lo punisce a un passo dal trionfo

Se per Moser la Sanremo fu una liberazione, per Moreno Argentin è stata una dannazione. Anche lui, come Francesco, l’ha inseguita per anni, ma quando ha creduto di averla vinta il sogno si è trasformato in incubo.

Accade nel 1992: Argentin sta vivendo una splendida maturità nella Ariostea di Giancarlo Ferretti. Re conclamato delle Ardenne, ha nel palmares tre classiche monumento su cinque. Alla Roubaix non è mai stato interessato, quella che gli manca è appunto, la Sanremo, a cui in questa edizione si presenta da favorito assoluto.

La corsa non dice molto, fino al crocevia del Poggio. Argentin è nelle prime posizioni. La sua storia dice che quando punta la preda sa azzannarla senza pietà, al momento giusto, ma la Classicissima sembra togliergli lucidità. 

Sul Poggio scatta subito, forse troppo presto, e ha la sfortuna di trovarsi davanti due moto che lo ostacolano. Poi parte altre tre volte e alla terza riesce finalmente a fare il vuoto. Fatta? Non proprio, perché Moreno non è mai stato un discesista. 

E infatti il gruppo lo bracca, e dal gruppo esce l’avversario peggiore: Sean Kelly, che la Sanremo già l’ha vinta e che in caso di arrivo in volata non è battibile. È una caccia crudele: alla fine della discesa, Kelly è a non più di cento metri, che in pianura diminuiscono rapidamente fino all’aggancio. 

Quando Argentin si volta e trova la sagoma dell’irlandese alla ruota, il suo destino è già segnato. La volata non ha storia e il dopo corsa del veneto è di abissale tristezza. Nei successivi due anni proverà ancora a rompere il sortilegio, ma dovrà arrendersi.