Rebellin, l’avventura continua: «Perché dovrei smettere? Se non pedalo mi stanco»

Davide Rebellin Work Service Marchiol Dynatec Vega
Davide Rebellin in compagnia di Biagio Conte, direttore sportivo della Work Service-Marchiol-Dynatec-Vega.
Tempo di lettura: 7 minuti

Che Davide Rebellin indichi Gianni Bugno come uno dei suoi idoli fa riflettere. Pur appartenendo effettivamente a due epoche diverse, tra i due ci sono soltanto sette anni di differenza. Alcuni giovani corridori che qualche giorno fa hanno corso il Laigueglia spalla a spalla con Rebellin non possono minimamente ricordare i suoi successi più belli perché erano troppo piccoli o non ancora nati.

Rebellin ha conquistato la prima vittoria tra i professionisti nel 1993, ha indossato per sei giorni la maglia rosa nel Giro del 1996, è diventato principe delle Ardenne nel 2004 (mai nessuno aveva centrato Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi nel giro di una settimana, quando poi nel 2009 vinse per la terza volta la Freccia sui giornali non si leggeva altro che “Trebellin”).

Davide Rebellin nella prova in linea dei campionati italiani del 2008.

Perché Davide Rebellin continua a far parte del ciclismo professionistico? Non perché rincorre il corridore che fu: alla fine, pur avendo 44 anni, nel 2015 batté Nibali in volata alla Coppa Agostoni. Nemmeno per ingordigia, di certo nelle ultime stagioni Rebellin non si è coperto d’oro. Da quando è stato assolto dai fatti che lo riguardarono, la presunta positività alle Olimpiadi di Pechino e un’ulteriore accusa per evasione fiscale («la mia vittoria più bella», dichiarò a suo tempo), non si può nemmeno dire che continui a gareggiare per riabilitare la propria figura. Che insista, allora, per allontanare quel baratro che molti sportivi temono possa spalancarsi sotto i loro piedi una volta ritirati? A sentir lui sembra di no.

– Ogni anno, Davide, deve rispondere alle stesse domande sul suo ritiro. Non le dà fastidio?

– Non me ne ha mai dato più di tanto, sinceramente. Da una parte, immedesimandomi nei giornalisti e nei tifosi, capisco che sia una domanda lecita. Diciamo che ormai mi sono abituato. E poi, detto fuori dai denti, di cosa dovrei rispondere? Della mia passione, della mia abnegazione, del mio entusiasmo?

Davide Rebellin all’arrivo della Liegi-Bastogne-Liegi 2004.

– Entusiasmo è una parola chiave del ciclismo attuale, si usa spesso e volentieri ma probabilmente a vanvera. C’è ancora spazio per l’entusiasmo nel ciclismo di oggi?

– A malincuore devo dire che non lo so, che non ne sono sicuro, che nutro più di un dubbio. Penso a Dumoulin, un campione di vent’anni più giovane di me che ha già deciso di farsi da parte. Qualcosa vorrà pur dire. Un corridore al vertice non può sgarrare e questo alla lunga diventa logorante. Persino allenarsi, seguendo tabelle rigidissime, diventa un peso. E se un atleta non si allena volentieri vuol dire che nemmeno gareggia volentieri.

– Lei come aggira il problema?

– La mia situazione è più unica che rara, direi. Intanto ho 50 anni e una minima parte delle pressioni e delle responsabilità degli atleti più quotati. In secondo luogo, ormai mi conosco alla perfezione: non uso mai il misuratore di potenza, mentre di tanto in tanto indosso il frequenzimetro, anche se nessuno conosce il mio cuore meglio di me stesso. Diciamo che ho raggiunto un certo livello di esperienza e credibilità. E poi nel corso della mia vita ne ho passate di tutti i colori, sia sopra che giù dalla sella.

– A proposito di esperienze, Davide: poche settimane fa ha firmato con la Work Service l’ennesimo contratto della sua carriera, ma fino al termine della passate stagione sembrava che dovesse correre in Cambogia. Cos’è successo?

– La base operativa della squadra è nel sud della Francia, il manager della formazione è giovane e intraprendente e mi inseguiva da qualche anno. Alla fine ho ceduto alle sue avances, ma col tempo sono emersi diversi problemi interni e organizzativi che mi hanno fatto ritornare sui miei passi. Sarebbe stata un’altra avventura pittoresca, non lo nego: negli ultimi dieci anni ho corso per realtà polacche, algerine e addirittura del Kuwait.

– Cos’ha significato per lei far parte di realtà del genere?

– Mi ha aiutato a mettere nella giusta prospettiva il ciclismo europeo e la mentalità occidentale. Tanto per fare un esempio: in Italia e in tanti altri paesi, perlomeno nell’ambiente, mi conoscono e riconoscono praticamente tutti; in Asia o in Africa, invece, la maggior parte dei partecipanti e degli addetti ai lavori non sa nemmeno chi io sia. I nostri giovani mi si affiancano, mi raccontano tutto quello che io ricordo loro e mi chiedono qualche consiglio, mentre dall’altra parte del mondo può capitare che venga osservato con ironia e stupore.

Davide Rebellin al via della 1ª tappa del Tour of Oman 2016. Nel 1991 vinse il Prestigio Bicisport.

– Com’è il ciclismo dall’altra parte del mondo?

– Molto più spensierato e gradevole, specialmente per la persona e il corridore che sono adesso. Il pubblico non ne capisce molto, ma quando vede passare una corsa di ciclismo si riversa nelle strade senza tanti discorsi. E i percorsi non scherzano, in Indonesia mi è capitato di scalare un vulcano con pendenze al 25% per lunghi tratti: più difficile dello Zoncolan, giusto per capirsi. Pur presentandomi alle corse per ottenere il miglior risultato possibile, non nego che le vivo con più spensieratezza. I luoghi sono magnifici, pedali con le gambe ma con la testa a volte mi è capitato di ritrovarmi in vacanza.

– Il 9 agosto compirà 50 anni: i sogni che aveva da ragazzo li ha esauditi tutti o ne è rimasto fuori qualcuno?

– All’inizio, quando ero un bambino che si arrabbiava e piangeva quando non vinceva, volevo diventare un professionista. Poi, esaudito questo primo sogno, mi sono concentrato sui grandi giri, facendo abbastanza bene ma non dimostrando mai di poterli vincere. Quando ho iniziato a vincere qualche classica, ho capito d’aver trovato la mia strada e di volerne vincere una in particolare: la Liegi, com’era riuscito splendidamente ad Argentin. Vi lascio immaginare la mia gioia nella primavera del 2004, quando conquistai le tre classiche ardennesi in una manciata di giorni. Soltanto un sogno, temo, rimarrà irrealizzato: diventare campione del mondo.

– Avrebbe potuto diventarlo, se non fosse stato fermato nel miglior momento della sua carriera. Ritrova analogie tra il suo caso e quello di Alex Schwazer, tornato d’attualità nelle ultime settimane?

– Molte, sì. Come me, anche lui si è scontrato con una realtà che lascia sbigottiti: poni delle domande alle quali non ti viene data nessuna risposta, noti delle lacune palesi a cui nessuno porre rimedio. Si rischia d’uscirne matti, si è trattato del peggior momento della mia vita. E comunque l’assoluzione mi ha soddisfatto a metà: la medaglia d’argento delle Olimpiadi di Pechino non mi è mai stata restituita e dubito che mi verrà recapitata a breve termine. Le spese per aprire un’altra causa sarebbero troppo ingenti, quindi dovrò accontentarmi di sentirla mia e di non aver problemi con la mia coscienza. Che non è poco, si capisce.

Davide Rebellin in azione nella prova in linea dei campionati italiani del 2019 (foto: Scanferla)

– Correre in squadre di secondo piano è stato soltanto divertente?

– Assolutamente no, specialmente all’inizio. La mia squalifica non è durata soltanto due anni, a ben vedere continua a durare anche adesso. Da allora, soltanto poche formazioni di secondo piano hanno creduto e scommesso su di me. Il treno è passato, come si suol dire, e io per colpe non mie non l’ho potuto prendere. Per me, che nel 2011 nonostante i 40 anni e i due anni di inattività, battei Pozzovivo e Pinot alla Tre Valli Varesine, è stato anche umiliante. Ho accettato la situazione, mi sono rimboccato le maniche e sono ancora qua. Ma non è stato semplice, anzi.

– Dove vorrebbe concludere la propria carriera?

– Sulle Ardenne, disputando Freccia e Liegi, magari con la Work Service. Sto sognando? Forse sì, ma in questa squadra vedo ambizione, passione e organizzazione. Non voglio cambiare squadra per inseguire questo sogno, se non arriva con la Work Service me ne farò una ragione. Nel WorldTour magari non mi riprenderebbero, ma probabilmente sono io il primo a non voler tornarci. La libertà e la serenità di cui godo adesso non le scambierei per niente al mondo.

– Cosa l’ha salvata nei momenti più difficili?

– Mia moglie Francoise più di ogni altra cosa, grazie a lei ho capito che mi ero concentrato troppo sul ciclismo e poco su tutto il resto. Se non fossi diventato un uomo diverso, oggi non sarei un ciclista professionista di 50 anni. In alcuni momenti sono stato un campione solo e introverso, sapevo esprimermi soltanto grazie alla bicicletta. Fortunatamente sono cambiato. Oltre a mia moglie, anche la religione mi ha aiutato. Da giovane andavo molto di più a messa, però la sostanza non cambia. Per me essere credenti significa dimostrare gratitudine e amore nei confronti di quello che si fa e che si ha.

– Davide, ha mai calcolato i chilometri accumulati in carriera?

– Giusto pochi giorni fa con mia moglie Francoise per rispondere alla curiosità di un amico. Credo un milione e mezzo, se considerate che sono professionista da circa 30 anni e ogni anno metto nelle gambe tra i 30.000 e i 40.000 chilometri. Poi ci sono quelli accumulati nelle categorie giovanili.

– Quanto riesce a stare senza pedalare?

– Non più di tre giorni. Sento il bisogno di pedalare con costanza, fosse anche per un’ora o due. Se non pedalo mi stanco. Ma ringrazio il cielo d’aver avuto, a suo tempo, dei tecnici che non mi hanno buttato nella mischia del Giro e del Tour fin da subito. I giovani fuoriclasse che oggi danno spettacolo non dureranno a lungo: ancor prima che del loro fisico, che comunque prima o poi chiederà loro il conto, a mancare saranno le motivazioni. E senza obiettivi e motivazioni, nel ciclismo non si va da nessuna parte.

– Davide Rebellin non si ritirerà nemmeno nel 2021 e questo lo abbiamo capito. Ma in 30 anni non le è mai davvero capitato di pensare al ritiro?

– Mai, se devo essere sincero. Nemmeno una volta.