La inseguiva da due anni. Era stato beffato sul traguardo da Duclos e poi dalla sfortuna lungo la strada dell’ultima edizione. S’era preparato con un puntiglio esaltante. Era caduto quattro giorni prima. Aveva stretto i denti. Ecco la storia d’una Parigi – Roubaix straordinaria con un toscano di scorza dura
Ballerini vai via
Si sono sganciati
Eravamo ad aspettarlo al largo della curva secca che la strada del pavé segna appena fuori dalla foresta di Arenberg. In quel punto si crea una sorta di muraglia umana in mezzo alla quale si infilano i fotografi scesi al volo dalle moto. E’ un momento fondamentale della corsa. Chi occupa le posizioni di testa entra di forza nel quadro conclusivo del viaggio. Il quadro più bello. E siccome il punto è magico per chi vuol vedere in faccia i grossi calibri della Roubaix, appena usciti dalla galleria degli alberi che coprono uno dei tratti più lunghi e più crudeli del pavè, su quella curva dell’Arenberg la muraglia umana è davvero forte. Tanto è vero che per intrattenerla si piazzano, sui prati circostanti, venditori ambulanti di panini col patè di campagna, di salsicce bollenti, di birra, di magliette, di poster e tutto ciò che i cultori acquistano. La maggior parte dei quali scende dalle vicinissime Fiandre e aspetta vociando con furore crescente, Museeuw, il campione che ha già vinto il Giro delle Fiandre, contro il quale ha combattuto da leone l’ucraino Tchmil diventato, naturalmente, il rivale più cocciuto del fiammingo.
Tanto è vero che per i fiamminghi già ebbri, Museeuw è l’angelo e quell’altro è il diavolo. L’arrivo della corsa è annunciato dalle moto sempre più frequenti del servizio. I gendarmi della pattuglia che segue la Roubaix cavalcano agilissime motociclette da cross mentre i fotografi, in grandissimo numero, viaggiano su trespoli colossali sormontati da grandi fari gialli che sbucano dal pulviscolo della foresta come da un tornado e creano ovviamente una eccitazione altissima.
Le vetture sono ugualmente segnalate da una strada che per mancanza di pioggia è fortemente polverosa: spinte a tutta su di un terreno così perfido, sembrano macchine d’un safari africano. Ai francesi piace molto questo tocco d’avventura estrema e tutto, ovviamente, contribuisce a rendere eccitante questa benedetta Roubaix che Ballerini insegue con la pia devozione di un missionario.
Noi vogliamo sapere se Ballerini sarà in buona posizione all’uscita dalla foresta o se la sua corsa sarà già compromessa da un distacco peraltro temuto.
E’ partito in condizioni di palese inferiorità di fronte ai rivali nonostante una preparazione straordinaria dell’impresa. Praticamente il Ballero era in attività di servizio da quel pomeriggio di due anni fa in cui la vecchia volpe Duclos, beffandolo, gli aveva tolto per otto centimetri il tappeto della Roubaix da sotto le ruote. Erano in fuga tutti e due e il nostro volava sul pavé. L’altro era agganciato al mozzo di Ballerini da un filo tenue di speranza. S’era aggrappato per misericordia all’italiano nel momento dello scatto decisivo di Ballerini ed aveva resistito sul pavè più duro raccomandando l’anima al rivale. «Franco aspettami – gli aveva sibilato – non mi staccare. Portami al traguardo, non ho forze per batterti».
Duclos aveva già vinto una Roubaix. Ed era un vecchio corridore francese meritevole di rispetto. Ballero volava. Ma tanto valeva graziare il rivale vista la realtà. Più che le parole di Duclos lo convincevano le sue personali forze, che erano davvero tremende.
Il Ballero aveva pensato: se lo stacco vado al traguardo da solo e vinco. Ma vinco anche se me lo tengo alla ruota, mezzo morto com’è. E allora perché fargli una cattiveria. E’ un veterano della Roubaix, lo porto con me al traguardo e gli concedo, povero Duclos, di arrivare secondo alla mia ruota. Così non aveva spinto più di tanto su quegli ultimi tratti dei quali gli sarebbero bastati cinque metri per mandare giù disteso il rivale appeso a un filo. Invece no, lo aveva portato a Roubaix sicché all’entrata nel mitico stadiolo un boato li aveva accolti: i francesi erano impazziti per l’eroica impresa del loro vecchio Duclos accucciato al mozzo del Ballero. E quel boato aveva rigenerato il corridore il quale facendo ricorso all’astuzia che certamente aveva in misura superiore al Ballero, tracciò in un lampo una strategia vincente.
Fece fare al nostro il primo giro in testa e avendo visto che Ballerini pedalava un rapporto molto duro, fece di tutto per restare quieto alla ruota e far cadere l’andatura. Il suo rapporto era leggermente più agile. Quando sul rettifilo di fronte, per l’ultimo mezzo giro d’una pista molto lunga, Duclos scattò da dietro, prendendo il Ballero di sorpresa, non solo saltò in testa ma conquistò metri preziosi obbligando il rivale ad arrampicarsi sui pedali per rimettere in moto la bici.
Il rapporto era troppo duro per una risposta agile e così, su quel colpetto geniale, Duclos vinse la sua seconda Roubaix togliendo all’italiano la felicità e il sonno.
Da quella sera di due anni fa, dunque, Ballerini aveva iniziato la preparazione della sua rivincita che sarebbe certamente avvenuta un anno fa se cinque forature e due cadute non lo avessero inchiodato sulla strada sconcia di fango e d’acqua. E adesso? Adesso la sfortuna non l’aveva di certo perso di vista. Quattro giorni prima a Wevelgem lo aveva colpito in pieno facendolo cadere. Aveva picchiato la clavicola contro l’asfalto della strada e s’era procurato una sublussazione con grande infiammazione della parte. Un dramma. Un dramma vero, vissuto minuto per minuto dal clan nel quale, in compenso, crescevano di minuto in minuto le quotazioni degli altri: per esempio di Museeuw, in odore di santità. E di Bortolami, in grande condizione.
Lo avevamo visto il giorno prima, sabato, e ci era parso sereno. A volte un colpo d’occhio vale più di un interrogatorio sicché non avevamo chiesto nulla al Ballero all’infuori d’un “cosa combini?” che lo aveva indotto ad un sorriso. Era chiaro che sapeva d’andare incontro ad un rischio grande, quello di soffrire sul pavé e di doversi arrendere. Ma era altrettanto chiaro almeno per noi che lo seguiamo con grandissima fiducia, avendo capito due anni fa, dopo quell’incidente balordo, ch’egli aveva la Roubaix nel sangue, che Ballerini avrebbe disputato l’indomani la sua corsa più feroce e più determinata sicché per queste ragioni, fondate più su di un sentimento e su di una sensazione impalpabile che sul ragionamento, lo avevamo dato per favorito alla vigilia e adesso lo aspettavamo all’uscita dalla famosa foresta. Ballerini lo sa.
Cioé Ballerini non sa che noi siamo lì ad aspettarlo per una sorta di passaggio d’una comunicazione definitiva ma sembra quasi ch’egli lo sappia tanto è vero che quando un elicottero a volo radente annuncia l’arrivo dei primi, vediamo Tchmil, il moldavo, in quarta ruota e l’altro, il nostro, in quinta ruota, al mozzo del corridore che ha vinto l’anno scorso. Il quadro è chiaro. Perfetto. Ballerini viaggia nella scia dell’uomo che presumibilmente tenterà l’azione di forza da lontano e lo bracca. La presa bassa del manubrio segnala la rabbia del corridore. La sua potenza è palese. E gli occhi puntati sulla ruota che morde sconnessi ciottoli nella polvere sembrano i controllori impietosi di un’azione che non lascia alcuno spazio al dubbio: Ballerini c’è. Il resto fa parte di un paesaggio che segnala un Cipollini ancora in buona posizione, un Tafi e un Bortolami non lontani dal Ballero e un Museeuw leggermente più attardato. Ma i grossi, in realtà, sono lì. Salvo che a noi sembra che Ballerini abbia già la Roubaix nella saccoccia.
Poi l’uscita sul tablao della corsa che sembra il quadro d’una rumba flamenca giocata sulla scena da un’ebbra comunità gitana. Vanno via in quattro. C’è anche Tafi, amico di Ballerini. La radio della corsa segnala una foratura del toscano e questo è un momento glaciale. Invece non è affatto una foratura del Ballero: Fabrizio Fabbri ci svelerà il piccolo giallo al traguardo.
«Non era affatto una foratura. Ballerini non ha mai forato. Doveva solo cambiare la bicicletta e questo lo avrebbe fatto ad una quarantina di chilometri dalla conclusione passando, per l’ultima parte di strada, su di una bicicletta con telaio in carbonio. La prima aveva il telaio in acciaio, giusto per i tratti più duri del pavè. La seconda sarebbe stata più agile, più leggera e dunque ideale per concludere alla grande il viaggio».
Immaginate voi la trepidazione degli uomini sull’ammiraglia sconciata dalla strada e pronta a balzare sull’uomo per agganciarlo al volo. Quaranta chilometri dalla conclusione. Ballerini scivola nelle ultime posizioni della sua pattuglia. Davanti, in fuga, ci sono Tafi, Ekimov, Vanderaerden e Dietz. Il momento è atteso e questa volta arriva puntuale come una promessa di guerra. Ballerini alza un braccio. Basta un cenno. L’ammiraglia è chiamata dalla radio e schizza cedendo caucciù sull’asfalto. Ballerini cambia bicicletta. E’ in condizioni strepitose. Per quel vizio professionale che naturalmente coinvolge gli addetti, Fabbri – il quale è stato grosso corridore – butta l’occhio sulla gamba e la vede piena, potentissima, pronta. Via: comincia davvero l’assalto alla città del carbone e delle vecchie filande del Nord. L’inferno è qui. E il Ballero è pronto.
Va via Capiot. Parte all’inseguimento dei quattro e Bortolami lo aggancia mentre Ballerini rientra. Il toscano spinge a tutta e supera gli uomini a doppia velocità. Vede Bortolami sull’orizzonte della strada e lo mette nel mirino nel momento stesso in cui Bortolami, voltandosi, lo incrocia. Allora Bortolami rallenta, perde la ruota di Capiot, recupera quella di Ballerini e subito si crea sulla strada che di nuovo entra nel labirinto del pavé un convoglio perfetto. Lo spettacolo tocca vertici altissimi. Tafi, davanti, quasi indovina l’evento anche perché in pochi chilometri di strada egli sente sul collo il dito dei due compagni. Arrivano. E si mescolano nella pattuglia creando con i quattro un convoglio di sei. Alle loro spalle c’è Museeuw che lavora per la comunità. Quando Baldato cerca di scattare, il fiammingo gli salta sulla ruota e siccome ormai di lingua italiana ne mastica, con un beffardo sorriso gli mormora: «Scusami, devo farlo». E Baldato ride perché è naturale che Museeuw si comporti così.
Sta nascendo, davanti, una grandiosa Roubaix per la sua squadra, diamine. Ma non è affatto finita. I tratti del pavè sono ancora presenti come lame infilate, di volta in volta, nelle ferite dei corridori. Il tremolio della strada, sui ciottoli sconnessi, passa al manubrio scosse che il manubrio passa ai polsi e i polsi al cervello dei superstiti. Le ferite della Roubaix saranno presenti per venti giorni almeno nel corpo dei corridori che volano verso un traguardo mitico.
E la clavicola di Ballerini? Niente. L’infiammazione si era ridotta parecchio. Gli avevano posto una sorta di tutore che lui, prima della partenza, aveva rifiutato. E gli avevano fatto una infiltrazione contro il dolore. Sui primi tratti di pavè avrebbe capito se il viaggio sarebbe stato possibile oppure no. All’uscita di Arenberg noi avevamo capito benissimo che non solo il viaggio era possibile ma che questa volta difficilmente la Roubaix sarebbe sfuggita alle grosse mani del corridore toscano. Il primo toscano sulle pietre della leggenda.
Urla Ballerini a Tafi: «Sul prossimo pavè spingi a tutta».
Tafi capisce e siccome ancora di birra in corpo ne ha tanta, spinge a tavoletta sbriciolando il convoglio. Sull’asfalto che segue, Ballerini e già in fuga. Il suo addio alla compagnia si realizza come una dissolvenza in una scena cinematografica. Lo vedono ingobbito sulla bici. Lo vedono rimpicciolirsi in un lampo e sparire, davanti, portato via da una luce che filtra attraverso il grande polverone alzato dalla carovana. Ballerini si infila da solo nel tornado della Roubaix ed uscirà per primo, con oltre due minuti di vantaggio, quando la strada finalmente entrerà nel piccolo velodromo colmo di gente pronta ad alzare il solito boato segnalato dal Figaro, il grande quotidiano francese, che per l’appunto racconta, sui fogli d’un taccuino fedele all’emozione dell’evento, che la gente si esalta e si commuove quando entrano sulla pista leggendaria gli eroi dell’inferno. L’inferno del Nord.