
A chi lo definisce corridore giramondo, Giacomo Ballabio risponde che è sempre stata solo e soltanto una questione di necessità, e non un capriccio esotico. Tutto cominciò nel 2017, quando per trovare un ingaggio e debuttare tra gli Under 23 fu costretto ad emigrare in Svizzera. Ad accoglierlo fu l’Equipe Exploit-goomah Bikes. Strano, però: l’anno prima aveva vinto la terza tappa della Aubel-Thimister-La Gleize, prestigiosa corsa a tappe belga, anticipando in uno sprint a due il francese Burgaudeau, regolarmente in fuga al Tour ogni luglio con la maglia della TotalEnergies e secondo nella dodicesima frazione del 2023; e quella volta, ormai quasi dieci anni fa, nono arrivò Philipsen. Strano, effettivamente, che nessuna squadra italiana avesse deciso di puntare su Ballabio: ma sarebbe diventata la costante della sua carriera.
«Mi è capitato di rientrare soltanto nel 2020, la peggior stagione possibile, perché la pandemia combaciò con il mio quarto anno tra gli Under 23. Nel 2018 e nel 2019 feci parte della Iam, una continental di buon livello il cui sponsor aveva già investito nel World Tour per qualche tempo in precedenza. Tra i direttori sportivi c’era Mario Chiesa e quando la squadra chiuse fu lui a propormi di seguirlo alla Iseo. Partecipai anche al Giro d’Italia di categoria, quello che vinse Pidcock, ma complessivamente fu un’annata avara di possibilità e ancor più di soddisfazioni. E dopo la quale fui costretto a ripartire letteralmente da zero».
È nel 2021, infatti, che la tua carriera comincia a delinearsi con più chiarezza nel circuito delle continental.
«Siccome all’epoca avevo corso più all’estero che in Italia, mi venne naturale andare a cercare un posto in Francia. Io conoscevo il movimento e dall’altra parte conoscevano me, grazie anche ad un bel successo di tappa all’Olympia’s Tour del 2018 davanti a Kanter e con Meuus quinto, oggi entrambi stimati professionisti. Nel 2021 indossai la maglia della Charvieu Chavagneux Isère Cyclisme, nell’organico c’era anche Magnier. Nel 2022, invece, andai alla VC Villefranche Beaujolais. Per quanto buone, erano pur sempre realtà dilettantistiche e la sfida più ardua è stata mantenere alta la motivazione. Vivendo a Giussano, dove sono nato (il 10 gennaio del 2008, ndr), mi sono dovuto sobbarcare delle trasferte mica da ridere».
Però alcuni piazzamenti ti hanno portato a trovare, per il 2023 e il 2024, un contratto con la Global 6, continental neozelandese.
«In due anni ho sfiorato una tappa in Taiwan e ne ho vinta una alla Flèche du Sud, rendendo tuttavia meglio nel 2023 che non nel 2024. Ho corso in Asia, in Grecia, in Polonia, in Romania, in Lussemburgo, in Spagna, in Inghilterra. Anche in Turchia, nel 2023, nella prima tappa primo Philipsen e io ottavo, subito davanti a Moschetti. Probabilmente è la gara più stravagante a cui abbia mai partecipato. Mi sono rimasti impressi gli autisti, a dir poco spericolati, che ci portavano in partenza e poi di nuovo in albergo. Sono stati due anni preziosi».
Che ti hanno avvicinato, infine, alla Hrinkow, continental austriaca per la quale hai corso quest’anno.
«Ho vissuto la mia stagione migliore. A marzo ho vinto la mia prima gara tra i professionisti, la terza tappa del Tour of Taiwan davanti a Quartucci e a tanti altri corridori delle Professional. Ad aprile ho chiuso quarto nella classifica generale del Circuit des Ardennes, a 12” dal vincitore e in mezzo agli elementi più validi dei vivai internazionali, e in due frazioni mi sono classificato secondo. A luglio ho chiuso sesto nell’ultima tappa del Tour of Austria, davanti a me cinque professionisti: Jungels, Rui Costa, Vermeersch, Charmig e Konrad. Quarto, invece, nella seconda frazione del Repubblica Ceca anticipato da Lecerf, Fancellu e Uijtdebroeks. Infine settimo nella tappa inaugurale del Lussemburgo dietro a Grégoire, Van den Berg, Hirschi, Vendrame, Del Grosso e Kragh Andersen. Speravo che si facesse avanti qualche Professional, invece non ho ricevuto nemmeno un’offerta».
Hai quasi ventotto anni, sei maturo e completo, tieni in salita e ti difendi nelle volate a ranghi ristretti: riesci a spiegarti questo disinteresse?
«Cerco di pensarci meno possibile, ma è come se per certe squadre non esistessimo. Capisco la volontà di prendere i giovani più validi, ma in una formazione servono anche corridori più esperti come me in grado di leggere determinate dinamiche di gara e di aiutare i capitani. Non avrei problemi a mettermi a disposizione di chi si dimostra più forte, mi pare il minimo. Ma non sono il solo a vivere questo paradosso, conosco diversi buoni atleti delle continental che per un motivo o per un altro non riescono ad entrare nel giro del professionismo».
Né dilettanti né professionisti: cosa significa correre in una continental?
«È un universo a sé stante. Senz’altro variegato: ci sono realtà che corrono in ogni angolo di mondo e capita di affrontare tanto la vecchia gloria quanto il giovane rampante. È un ambiente in cui bisogna imparare a contare su se stessi, perché non esistono società che assistono e accompagnano l’atleta ad ogni passo come accade, invece, regolarmente nella massima categoria. Esistono figure di riferimento, ma sono poche. L’unico responsabile del mio stato di forma sono io, è mio compito e dovere farmi trovare pronto alle corse, non ho qualcun altro con cui condividere l’incombenza. C’è un ritiro e basta all’inizio dell’anno, giusto per guardarsi in faccia e conoscersi; la gestione dei ritiri successivi, invece, è autonoma sotto tutti i punti di vista. È fondamentale costruire un entourage professionale e affiatato: il preparatore, il nutrizionista, il massaggiatore. Un piccolo gruppo di lavoro sul quale poter contare sempre».
Quanti giorni all’anno passi lontano da casa?
«Le mete esotiche di certe gare fanno credere che siano tanti, ma in realtà non è così. Non andando in ritiro così spesso come i professionisti, e non potendo correre in continuazione per una questione di budget, si viaggia una o due volte al mese. Io ho chiuso la mia stagione con quarantaquattro giorni di corsa: niente di che, se si considera che c’è chi ne accumula anche sessanta o settanta. Secondo me è un modo intelligente di gestire le risorse e le energie: c’è il tempo di prepararsi nella maniera giusta, raramente capita di tappare un buco all’ultimo minuto e non c’è quell’ansia di dover rincorrere punti e piazzamenti per le classifiche o gli sponsor».
Fino a quando continuerai?
«Finché avrò voglia di fare questa vita, che da una parte è divertente e dall’altra è impegnativa e provvisoria, considerando che a novembre non sapevo ancora dove avrei corso quest’anno. A volte mi capita di guardarmi indietro e di pensare che tanti altri, nella mia situazione, avrebbero mollato. Io ho dimostrato passione e carattere, e continuo a sognare di diventare professionista nonostante il tempo passi impietoso. Mi piacerebbe scoprire fino a dove posso arrivare inserito in un contesto di prim’ordine, sarei curioso di esplorare i confini delle mie potenzialità. Spero di averne l’occasione».
Hai qualche rimpianto?
«Qualche errore si commette sempre e ogni percorso ha i suoi vicoli ciechi, quindi la risposta è probabilmente sì, ma il passato cerco di lasciarlo dov’è. Da giovane mi sono gestito male: io ero più ignorante e inesperto, e nelle categorie inferiori c’erano ancora le convinzioni di una volta; un giorno andavo forte e il giorno dopo andavo piano, magari con la maturità e le consapevolezze di oggi avrei trovato la continuità necessaria per attirare l’attenzione di certe squadre. Senza dimenticare alcuni problemi di respirazione che mi hanno rallentato in un altro periodo. Ma insomma, adesso non ha senso rispolverare certe questioni. Tutto sommato sono contento di dove sono, vorrei soltanto mettermi alla prova tra i professionisti».
Dove correrai il prossimo anno?
«Ancora non lo so, deciderò nei prossimi giorni. Intanto la stagione è finita e adesso mi concederò delle camminate in montagna, sfruttando una baita che ho in Valchiavenna».













