Parravano: «Ora credo in me stesso e non esco mai dai primi dieci, datemi una chance tra i professionisti»

Parravano
Francesco Parravano dell'Aran Cucine (foto: Pettinati Communication)
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Per anni Francesco Parravano ha corso senza credere sufficientemente in se stesso. Un po’ perché, almeno fino al dilettantismo, pedalare era perlopiù un divertimento. Un po’ perché, minuto di fisico, faticava a competere coi coetanei: e la maturazione, di arrivarne, non ne voleva proprio sapere. E infine perché Parravano aveva evidentemente bisogno di qualcuno che toccasse i tasti giusti: Fabrizio Tacchino, il suo nuovo preparatore.

«Sono alto 1,68 e peso 56 chili. Il mio terreno è la salita, non potrebbe essere altrimenti, ma per lungo tempo ho dovuto ugualmente stringere i denti. Il primo biennio in cui ho dimostrato di valere qualcosa è stato quello tra gli juniores, 2017 e 2018: nessuna vittoria, ma diversi buoni piazzamenti. E’ tra i dilettanti che la situazione è diventata più seria. Io credo che il mio più grande pregio sia la forza di volontà, o per meglio dire la predisposizione al lavoro e al sacrificio. Mi sono sempre dato tanto da fare, ma per anni i risultati non mi hanno dato ragione. E io ci rimanevo male».

Come ne sei uscito, Francesco?

«Sai, a dicembre compirò 23 anni e questa è la mia prima stagione tra gli elite. Diciamo che inizio ad avere una certa esperienza, bene o male che sia. Negli ultimi mesi sta andando tutto per il verso giusto: ho cambiato preparatore e preparazione, ho trovato quella costanza che spesso in passato mi era mancata, sono maturato fisicamente e psicologicamente. E laureandomi con 103 in Scienze Motorie ho sgombrato ulteriormente la mia testa».

Non credendo in te stesso quante gare pensi di aver compromesso?

«Non esageriamo, non voglio che passi il concetto che con un po’ più di sicurezza nei miei mezzi sarei potuto diventare un campione. Però le mani me le sono mangiate in più di un’occasione, devo darti ragione. Nel 2020, ad esempio, ho chiuso nono ai campionati italiani, ma ero nel drappello che si giocava il terzo posto e che venne anticipato di un paio di secondi dal secondo, Santaromita. Quel giorno mi sentivo fortissimo. Stesso discorso al Belvedere della primavera successiva: decimo a 32” da Ayuso, che vinse, e non distante dai suoi primi inseguitori. In salita valevo i migliori, ma oltre un certo limite non riuscivo ad andare».

Sei uno scalatore, insomma.

«Anche perché non vedo alternative. Comunque la salita mi piace anche concettualmente, non soltanto ciclisticamente. Si è nudi, non ci si può riparare e non si possono sfruttare le scie. E’ bello riuscire a fare la differenza, vedere gli altri alla tua ruota che piano piano perdono contatto. Per questo il mio sogno sarebbe quello di partecipare, un giorno, al Giro d’Italia dei professionisti. Tra i dilettanti, invece, punto al Valdarno: si corre a settembre, sono 180 chilometri e 3.000 metri di dislivello, nel 2021 ho chiuso nono e vorrei migliorarmi».

A quali corridori t’ispiri?

«Se devo essere sincero non ho mai avuto un corridore di riferimento. Nemmeno da bambino, quando mi appassionai sull’onda della passione trasmessami da mio padre, anche lui corridore fino al dilettantismo. Le carriere che apprezzo maggiormente sono quelle che si basano sul duro lavoro: penso a Roglic, che veniva da un altro sport e da un incidente quasi mortale, oppure a Vingegaard, che lavorava al mercato del pesce e che per arrivare a quei livelli ha dovuto impegnarsi più di altri. Nel mio piccolo mi ci rivedo e mi dà un po’ di speranza».

Credi ancora nel professionismo?

«Perché no? Certo, essere un elite nel ciclismo contemporaneo non è il massimo, ma uno nei propri sogni deve crederci, non può aspettarsi che lo facciano gli altri al posto suo. Io credo che sia difficile ma non impossibile. A me, intanto, basterebbe una chance: giusto per capire cosa potrei dare e fino a dove potrei spingermi. Comunque vada, rimpianti non ne ho. Non amo guardarmi indietro, di rimpianti si può morire, ogni decisione che ho preso mi ha portato ad essere la persona che sono oggi e mi ha insegnato qualcosa. Quindi vado avanti, provo a mettermi in mostra ogni volta che posso e spero che qualcuno mi noti e mi dia una chance».

Non si può dire che non tu ci stia provando: quest’anno hai chiuso decimo a Montecassiano, nono a Pontedera, ottavo alla Bolghera e al Torresi, settimo ad Albola, a Santa Rita e a San Giovanni Valdarno, sesto alle Valli Aretine, quinto a Mercatale e al Montalbano, secondo a Montegranaro e finalmente primo a Lari.

«Non c’è dubbio, sto vivendo la miglior stagione della mia carriera. I buoni piazzamenti li ho sempre raccolti, adesso sono diventato anche costante e affidabile. Praticamente non esco mai dai primi dieci e lotto più o meno alla pari anche con gli scalatori delle squadre di riferimento della categoria. Per la Aran, la formazione in cui milito, questo è importante: all’inizio dell’anno i miei compagni erano impauriti dal confronto, adesso invece vedono me che mi faccio valere e prendono fiducia anche loro stessi. Essere un leader è stimolante, mi piace».

Cos’è cambiato all’atto pratico in te rispetto alle stagioni passate?

«Quando dico che ho cambiato preparazione, intendo che ci stiamo concentrando di più sulle mie doti di scalatore. Non sono nemmeno così lento nelle volate a ranghi ristretti, ad essere sincero. Un altro cambiamento che mi viene in mente riguarda il piglio con cui corro. Per una vita ho calcolato tutto al millesimo, proprio perché non credendo a sufficienza in me stesso temevo di ritrovarmi senza energie nel momento decisivo. Adesso, invece, rischio di più e mi butto all’attacco: e i risultati ci sono, e io mi diverto di più. Soltanto così posso capire quali sono i miei limiti, e magari scoprirne di nuovi».