Il mese scorso, la Corea ha assistito alla storica entrata in scena del primo atleta transgender del paese. Si chiama Na Hwa-rin, ha 37 anni, uno e ottanta per 72 chili: fa la ciclista. Ai primi di giugno ha partecipato al Festival sportivo di Gangwon, e ha vinto delle medaglie. La massa muscolare di Na Hwa-rin supera decisamente la media delle atleta coreane, e la sua partecipazione alle corse di Gangwon ha suscitato dibattiti sulla questione dell’inclusività di genere e dell’equità nello sport. Dopo un intervento chirurgico di conferma di genere a Seul l’anno scorso e il conseguente rilascio di un nuovo certificato di nascita in aprile, Na è stata ufficialmente riconosciuta come donna in Corea. Non esistono regolamenti specifici sul genere per la qualificazione degli atleti nel Consiglio sportivo dello Stato di Gangwon e nel Comitato olimpico coreano. Questo ha consentito a Na di prendere finalmente parte al torneo provinciale.
Il problema è che Na ha vinto. Apriti cielo. La sua vittoria ha generato controversie, e reazioni di segno opposto. Alcuni gruppi a favore dei diritti LGBTQ hanno elogiato il suo coraggio e mostrato solidarietà, altri hanno sollevato dubbi sull’equità della sua partecipazione. Il governatore della provincia di Gangwon, Kim Jin-tae, ha espresso l’intenzione di squalificare Na dal Festival sportivo nazionale e ha criticato anche i festival dell’orgoglio regionale. Na ha raccontato che se lo aspettava. Aveva previsto tutte le polemiche e i commenti transfobici nei suoi confronti. Erano due anni che Na aspettava questo momento: anzi, la sua preoccupazione principale era che la sua rivelazione non suscitasse abbastanza dibattito e non portasse cambiamenti sulla scena sportiva coreana.
Na è nata e cresciuta a Cheorwon, dove vive tuttora. La sua città è in mezzo alle montagne, 70 chilometri a nordest della capitale, e al confine con la Corea del Nord. Na va in bicicletta ma è anche una contadina: da più di dieci anni nella sua fattoria produce asparagi. Fin dall’infanzia, Na ha sentito di essere nata nel corpo sbagliato. Si è scelta un soprannome – Hwa-rin, letteralmente “custode dei fiori” – che facesse capire qualcosa della sua storia. Ha affrontato diverse sfide, la più importante è stata quella di raccontare che non si sentiva uomo alla sua famiglia, una famiglia molto religiosa. Gradualmente ha ottenuto l’indipendenza finanziaria grazie all’attività agricola, ed è riuscita così a sottoporsi all’intervento di conferma di genere.
Prima del suo cambiamento, Na era già forte nel ciclismo, e aveva vinto diverse medaglie nelle gare maschili dei festival sportivi provinciali, nonostante fosse sottoposta a terapia ormonale. Per Na, però, l’obiettivo non era solo vincere, ma suscitare clamore e fare in modo che la sua vittoria diventasse una storia da raccontare. Questa che state leggendo. Dopo aver vinto la gara femminile, Na non era tanto felice quanto sollevata: sentiva di aver dimostrato il concetto di superiorità fisica maschile e di aver aperto un dibattito sull’importanza dell’inclusione di genere nello sport. Allo stesso tempo, ha mostrato compassione per le cicliste donne che hanno gareggiato contro di lei, offrendo loro bevande energetiche durante la gara per scusarsi della sua superiorità fisica.
Na ha scelto di rinunciare alla sua qualificazione per il Festival sportivo nazionale, per evitare di danneggiare le altre atlete. È convinta che sia necessario creare una categoria di “terzo genere” nelle competizioni sportive per rendere lo sport più inclusivo ed equo. La sua visibilità è un passo importante per aumentare la consapevolezza e l’accettazione degli atleti transgender nella società coreana. Na spera che la sua esperienza ispiri altre persone transgender a perseguire i loro sogni nello sport e in altri settori per sentirsi realizzati. Parla della Corea, ma la questione è tutt’altro che risolta anche nel resto del mondo. Lo sport, che dovrebbe viaggiare più avanti della società e della politica, lo sport che ferma le guerre e che rende visibili i diritti portandoli sul podio, sulla questione degli atleti transgender sbatte contro le finestre come un pipistrello che non trova la via d’uscita. Poco più di due mesi fa, il 1° maggio, la statunitense Austin Killips aveva vinto il Tour of the Gila, piccola corsa a tappe in New Mexico, prendendosi il record storico di prima ciclista transgender a vincere in una gara a tappe femminile internazionale.

In tutto il mondo la stampa conservatrice – in testa il britannico Telegraph – ha rilanciato la campagna per l’esclusione dalle gare delle persone che stanno affrontando o hanno concluso la transizione di genere. Dall’altra parte della barricata, il quotidiano della gauche francese Libération, continua a difendere a spada tratta i diritti delle atlete transgender senza cessare di raccontare le difficoltà che devono incontrare anche nello sport. «Austin Killips è una donna – ha scritto Libé – Ha completato la sua transizione e presenta un livello di testosterone in linea con quello fissato dall’UCI per gareggiare nella categoria femminile. Nonostante tutto, una parte del gruppo ha da ridire. Austin Killips si ritrova accusata di uccidere il ciclismo femminile». Le destre si sono alleate per combattere quella che Libé ha definito «una fantomatica minaccia transgender».
E la politica dello sport? Negli Stati Uniti proliferano le leggi statali studiate per limitare l’accesso degli atleti transgender alla pratica di base. Intanto il Cio lascia che siano le federazioni a decidere. La ciclista gallese Emily Bridges si è vista vietare i Giochi del Commonwealth dopo che l’UCI ha ristretto le regole dell’inclusione. Domenica 9 luglio la mezzofondista Nikki Hiltz ha vinto i 1500 ai Trials di Eugene e sarà la prima atleta dichiaratamente transgender a rappresentare gli Stati Uniti ai Mondiali, in agosto a Budapest. Anche a Doha 2019 Hiltz corse i Mondiali, ma allora non aveva ancora parlato apertamente del suo nuovo genere. Sarà una strada lunghissima, ad ogni metro ci sarà un ostacolo. Ma in fondo a ogni corsa, per quanto dura, c’è sempre il traguardo.